Io, dolce parola

A quattro anni da Noi credevamo, Mario Martone torna a raccontare l’Ottocento italiano in Il giovane favoloso, presentato in concorso a Venezia 71. Il regista napoletano ha messo stavolta in scena la vicenda tragica, sfortunata e piena di talento e di genio di Giacomo Leopardi, prendendosi un rischio di non poco conto, viste le tante possibilità di caduta che un soggetto simile poteva presentare, dalla difficoltà – quasi ontologica per il cinema – di mettere in scena l’epifania di un’opera poetica e letteraria, alla infelice configurazione fisica di Leopardi (vale a dire, la gobba passibile di ridicolo involontario).

Martone ha affrontato questi rischi facendo sostanzialmente un passo indietro rispetto a Noi credevamo: lì dove il suo film risorgimentale era eversivo e spiazzante, ellittico e digressivo, ontologicamente anti-scolastico, Il giovane favoloso appare invece, al di là di qualche lampo e di alcune scelte estetiche/registiche, sostanzialmente più tradizionale, quasi antologico e, per l’appunto, scolastico. Un corretto biopic che prende da Noi credevamo la medesima concezione della messa in scena (un brechtismo “arrotondato”, la narrazione episodica, la fotografia – sempre di Renato Berta – trasfigurata e insieme realistica, perché orgogliosamente digitale, e dunque un’immagine sentitamente pittorica e anti-pittoresca), mettendola però al servizio di un discorso complessivo ben più istituzionale. Il Leopardi di Martone in effetti altro non è che il Leopardi conosciuto a scuola, quello del pessimismo prima storico e poi cosmico, quello dell’infelicità esistenziale e del tempo passato sui libri nel natio borgo selvaggio.

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Sorprende, ad esempio, che Martone abbia deciso di tralasciare quasi completamente l’aspetto del Leopardi civile, quello del “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani” (che non viene neppure citato, mentre si cade in una declamazione illustrativa de “L’infinito”), omettendo quindi il Leopardi attivo nelle polemiche intellettuali di quegli anni e, in qualche modo, già risorgimentale. Sorprende quest’assenza soprattutto in confronto allo stesso Noi credevamo e al preciso discorso sul Risorgimento fatto allora. Non a caso, il momento più interessante del film è quello in cui il giovane Leopardi, ancora di stanza a Recanati, entra in contatto con Pietro Giordani (interpretato da un, al solito eccellente, Valerio Binasco). La vicinanza, nei primi tempi solamente epistolare, con questa figura di intellettuale e scrittore impegnato nel dibattito pubblico del paese, solleva il velo di tradizionalismo costruito intorno a Leopardi da suo padre Monaldo (Massimo Popolizio, anche lui ottimo).

Si instaura così una dialettica tra due visioni del mondo, quella paterna e pre-illuminista e quella invece “riformista” di Giordani, con l’intellettuale chiamato a sporcarsi le mani con quanto ha intorno. Da qui si concretizza il desiderio di fuga di Leopardi, ed è su questa antinomia che si muove la sua educazione e la sua maturazione. Martone però, dopo aver gettato le basi del discorso (incarnate tra l’altro nella sequenza più bella del film, quella del litigio di Leopardi con suo padre e suo zio, un confronto in cui emerge tutta la disperazione esistenziale del poeta), abbandona tutto il materiale narrativo saltando direttamente a dieci anni più tardi. Qui Leopardi ha già Ranieri al suo fianco e il suo disgusto verso il mondo e la società circostanti sono oramai a uno stadio avanzato. Certo, l’ellissi era parte fondante già della struttura di Noi credevamo, ma lì era al servizio di un “eterno ritorno” di delusioni e aspirazioni risorgimentali; in Il giovane favoloso invece il gioco sull’ellissi sembra dettato più dalla necessità di mettere in scena i momenti salienti della vita del poeta, che da una precisa e coerente articolazione narrativa.

Il giovane favoloso con i suoi amici

In tutto questo lo stesso Leopardi interpretato da Elio Germano non convince, perché l’attore recita troppo spesso al limite del grottesco, della macchietta sofferente, dell’occhiata sguincia e un po’ folle; purtroppo sembra evidente che Germano non sia riuscito a liberarsi del suo retroterra culturale né a misurarsi fino in fondo con un contesto così storicamente distante.

Sia chiaro, Il giovane favoloso è comunque un buon film, come del resto – sempre in campo leopardiano – era una buona trasposizione teatrale la raccolta delle “Operette morali”, portata sul palcoscenico dallo stesso Martone qualche anno fa. Anche lì, però, al di là di alcuni guizzi, non si scappava dall’illustrativo, dalla letterale trasposizione non troppo personale e non particolarmente stimolante, con persino qualche caduta di tono, come del resto accade anche ne Il giovane favoloso. Nel caso specifico del film leopardiano, sembra lecito sollevare qualche dubbio, oltre che sul complesso del discorso, anche su alcune scelte e su alcuni passaggi: dal finale quasi-malickiano al sogno sul dialogo tra la Natura e l’islandese (dal sapore abbastanza kitsch), passando per la colonna sonora elettronica di Sascha Ring (interessante quando è strumentale, ma davvero eccessiva nelle parti cantate), ma anche passando per certi bozzettismi della parte iniziale (la giovane tessitrice che Leopardi/Germano spia e in cui è facile riconoscere la Silvia della celeberrima poesia).

Pensando attentamente alla carriera cinematografica di Martone, forse vi si può riconoscere un fil rouge, ovvero la centralità del ruolo dell’intellettuale nella società e rispetto al mondo che lo circonda: Morte di un matematico napoletano, Teatro di guerra, l’episodio di I vesuviani, ma anche il non riuscito L’odore del sangue e lo stesso L’amore molesto (nel confronto tra la “bolognese” Anna Bonaiuto e il suo ritorno alla veracità napoletana), così come d’altronde Noi credevamo (l’intellettuale come avanguardia di una rivolta senza seguaci; vedasi in tal senso la straordinaria caratterizzazione del Mazzini/Servillo). Ebbene, proprio ora che il tema del ruolo dell’intellettuale si adattava perfettamente ad un suo film, Martone sembra aver volutamente saltato – o quasi – questo aspetto di Leopardi, concentrandosi sulla già sin troppo nota infelicità esistenziale, fin quasi a racchiudere il percorso del poeta di Recanati in una sorta di infantilismo permanente.

Certo, era un’impresa ardua e quasi impossibile quella di riuscire a raccontare una figura come Leopardi: Martone dopotutto ha avuto l’ambizione e il coraggio di provarci. E in pochi in Italia sarebbero stati così vicini dal riuscirci.

[Thank you, Quinlan!]

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