“Dacci oggi la nostra rivolta quotidiana”… forse è questa la preghiera che, all’epoca degli smartphone e del dominio incontrastato di poteri oscuri, i cittadini del mondo dovrebbero rivolgere al proprio Dio. Everyday rebellion – L’arte di cambiare il mondo è un film dei Riahi Brothers che fa il punto sui movimenti di protesta sbocciati in giro per il pianeta negli ultimi anni. Per una volta, con un forte protagonismo della società civile non occidentale. Infatti, dopo “un altro mondo è possibile”, i pamphlet di Naomi Klein e le iniziative lanciate contro le riunioni dei potenti della Terra (Seattle nel 1999, la nostra Genova nel 2001 e molte altre), è altrove che l’insopprimibile spirito di libertà si è levato con maggior vigore: le ragazze ucraine di Femen hanno ideato a partire dal 2008 il “sex-estremismo” per attaccare in modo aggressivo ma pacifico chi si rende responsabile di ingiustizia e oppressione; le primavere arabe esplose nel 2011 hanno portato al rovesciamento di satrapi quali Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia e Ben Ali in Tunisia.
Uno dei tanti attivisti intervistati nel corso del documentario, Admin Husain (un avvocato di New York dalle evidenti origini arabe), riconosce che Occupy Wall Street si è ispirato a ciò che è accaduto nel Medio Oriente. Questa è anche la tesi di fondo del film, impegnato a tracciare un filo rosso che colleghi le diverse forme di protesta. Tuttavia, appare chiaro come questi siano ben diverse tanto nella scaturigine quanto nelle modalità adottate sia da chi protesta, sia – ahimé – da chi reprime. Infatti, in paesi come Siria e Iran, la cui “meglio gioventù” è in prima fila nelle proteste, è in atto un classico scontro tra i difensori dell’autocrazia e chi chiede libertà e democrazia, mentre negli Stati Uniti vediamo all’opera raffinati intellettuali come Erika Chenoweth, professore associato di Resistenza nonviolenta all’Università di Denver, Pamela Brown, giornattivista autrice di un “Manuale operativo di resistenza al debito” o il professor Andrew Ross dell’Università di New York, il quale – nel corso di una iniziativa chiamata “You are not a loan” (gioco di parole tra “Tu non sei solo” e “Tu non sei in prestito”) – afferma: “L’unica alternativa al controllo delle banche sulle nostre vite è dichiarare collettivamente fallimento, comprare il debito sul mercato secondario: bastano cinquemila dollari per comprarne 100.00 di debito (così facendo, sembra che gli attivisti abbiano comprato 15 milioni di dollari di debiti contratti da altre persone, per poi cancellarli).
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In Spagna, invece, la lotta degli “indignados” si è diretta in primo luogo contro gli sfratti seguiti allo scoppio della bolla immobiliare e l’imperversare della speculazione finanziaria che conduce all’impossibilità dei piccoli proprietari di continuare a pagare le rate del mutuo, portando i più fragili a misure estreme: sono tanti, troppi, i suicidi per sfratto nella Spagna del post-boom economico. Il film segue la vicenda di Juan Carlos, un ingegnere informatico che cerca di evitare lo sfratto con ogni mezzo; vengono in suo aiuto le persone organizzate in “asamblea popular”, con metodi a volte naïf come la raccolta di firme presso gli abitanti del quartiere da depositare nella banca dove è stata accesa l’ipoteca sulla casa. Da qui, il movimento spagnolo si è ampliato: in alcuni periodi le assemblee pubbliche tenute nel centro di Madrid, a Puerta del Sol, sono state affollate di gente comune. Molto efficacemente la regia dei Riahi Brothers si insinua tra le persone che discutono animatamente, o che confessa il proprio disagio di fronte a forze più grandi di loro, fino a convincersi poco alla volta che, sì, si può fare (“Podemos!”), il popolo può riprendersi il potere, che non appartiene al governo se non siamo noi a concederglielo.
Attraverso una voce off che sussurra “Abbiamo dato troppa importanza al denaro” e “Dormivamo e ci siamo svegliati”, o un coro amatoriale che canta la propria indignazione, Everyday Rebellion è una lunga, poetica cavalcata attraverso le mille forme di resistenza non violenta inventate dagli attivisti di mezzo mondo.
Un capitolo molto doloroso è quello dei paesi in cui non si intravedono molte possibilità di vittoria per i coraggiosi che alzano la loro voce contro il Potere. Uno dei simboli più noti a livello globale è Neda, la ragazza uccisa da un colpo di pistola nelle strade di Tehran durante l’Onda verde, il grande movimento di protesta contro il regime di Ahmadinejad, ma, nel corso del processo presso il Tribunale all’Aja (non riconosciuto da Tehran) per i crimini commessi dalla Repubblica Islamica dal 1981 al 1988, spicca la terribile testimonianza di un ex detenuto, costretto a far parte del plotone di esecuzione cui spettava l’orrendo compito di giustiziare altri prigionieri. C’è un breve, eccezionale filmato d’archivio sulle fosse comuni dei prigionieri politici nel cimitero di Khavaran; come colonna sonora uno struggente canto popolare in cui si piangono i caduti per la libertà.
I giovani creativi iraniani, però, hanno imparato ad utilizzare metodi di lotta meno rischiosi, facendo circolare banconote da diecimila rial con timbri e scritte, addirittura foto, inneggianti alla libertà e creando ingegnosi sistemi per affiggere manifestini di protesta senza esser colti sul fatto. Straordinari, poi, graffiti degli artisti iraniani Icy & Sot e i cartoon di Mana Neyestani; in sottofondo, una sorta di talking blues in farsi.
Anche in Siria gli attivisti hanno escogitato sistemi creativi per diffondere la protesta, inserendo volantini nei palloncini, gonfiandoli e facendoli esplodere agganciandovi un fermaglio per capelli che stringe un cubetto di ghiaccio: quando questo si scioglie, il fermaglio scatta e fa esplodere il palloncino, lasciando il contenuto libero di disperdersi tra la gente. Altri hanno introdotto coloranti rosso-sangue nelle fontane di Damasco, per simboleggiare il massacro del popolo siriano. Un altro giovane attivista, dopo aver citato il guru americano della nonviolenza Gene Sharp, racconta divertito di quando hanno lanciando palline colorate rimbalzanti per le strade di Damasco, fino nei pressi del palazzo residenziale di Bashar al-Assad: gli addetti alla sicurezza si sono gettati in strada per cercare di bloccare queste palline mentre, di nascosto, gli attivisti guardavano ridendo alle loro spalle. Il racconto si conclude con l’improvvisazione di un canto contro Bashar.
Tuttavia, opportunamente “Everyday rebellion” non indugia nel mostrare la repressione scatenata da chi difende il potere, ma cerca di comprendere il confronto, la chimica che si sviluppa tra i due schieramenti: interessante vedere come i manifestanti spagnoli si facciano carico di evitare provocazioni e infiltrazioni tipo Black Bloc, abbracciando le guardie o schierandosi davanti agli scudi dei poliziotti bersagliati da una sassaiola; notevole il piano e contropiano di manifestante e poliziotto della Police Nationale francese, colto in un fugace accenno di sorriso.
Il film chiude su una nota di ottimismo e speranza, simboleggiate da un innocente scoiattolo di Zuccotti Park o dalla telecamera che lascia la manifestazione per seguire prima un palloncino verde, poi uno azzurro librarsi in cielo.