Ma Riccardo non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è da questi particolare che si vede un grande attore….Eppure, con questa opera prima, Riccardo Rossi tira il suo calcio di rigore, firma il suo esordio da regista, si gioca l’opportunità più importante della sua vita artistica per fare il salto dall’essere un bravo gregario, un ottimo professionista a quello di divenire un attore regista, un “auttore”, un passaggio ad un’età adulta in cui non si è più solo interpreti, performer umoristici o comici ma si prova a stendere il manifesto programmatico della propria visione del mondo, della società, dei rapporti umani.
Cosa sono, se non dichiarazioni d’intenti, affreschi su una determinata epoca del nostro Paese, film d’esordio come Un sacco bello, Ricomincio da tre o un quasi esordio come Ecce bombo. Verdone, Troisi o Moretti, in misura minore altri autori come Nuti, Benigni o Nichetti, utilizzano i loro primi film da registi non solo e semplicemente come summa delle precedenti prestazioni televisive, cinematografiche o teatrali ma come strumento per definire al meglio la loro presenza ed il loro “io sono qui” nell’ambito dello scenario culturale, sociale ed antropologico italiano.
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I primi film di questi autori diventano i titoli di testa, le prime sequenze che definiranno poi una più o meno lunga carriera. Riccardo Rossi allora tira questo calcio di rigore ma riesce a segnare? La prima volta di mia figlia è un film quasi vintage, fuori tempo massimo nel riproporre temi sordiani che sembravano già superati e bolsi negli anni ’80. Il cinquantaduenne esordiente Rossi sembra interagire antiteticamente con il fantasma ipotetico del ventenne Rossi che mai esordì, a differenza dei suoi più noti colleghi, in un rapporto che sembra quasi quello tra il vecchio Sordi ed il nuovo Verdone in In viaggio con papà. Ma Verdone ha potuto collaborare ed anche pensare di “uccidere il Padre” mentre il giovane Riccardo Rossi non lo ha fatto ed ora è diventato un maturo Riccardo Rossi pompiere senza neanche portare sulla pelle, nel proprio percorso di vita, i segni dell’essere stato un incendiario.
E così La prima volta di mia figlia è una garbata commedia, scritta bene, bene interpretata ed affidata ad una coralità che solleva Rossi da pericolosi assoli, una commedia di efficace impianto teatrale ma interessante più come macchina dello sfasamento temporale e generazionale. Adolescenti visti appunto con un malcelato moralismo sordiano, molte tensioni verso uno sperabile sbocco di sgradevolezza “anticarina” che invece si risolvono in un “Moretti ma non posso”, l’ennesina autocommiserazione ed autoassoluzione di quarantenni che ovviamente non sono più quelli di cui parlava Moretti appunto in Caro diario ma sono quarantenni del 2015, con altre dinamiche esistenziali, in somma non i quarantenni che si ricordava Rossi negli anni ’80-’90. La visione romanocentrica di Rossi sui ragazzi e sui loro padri è fuori sincrono, in ritardo di almeno un ventennio, come i fuori sincrono di Ghezzi, non a caso anche essi vecchi di almeno vent’anni.
Sfasamento ma anche afasia. A chi parla questo film? Non ai ragazzi ma neanche ai quarantenni che hanno altri problemi per la testa che andarsi a vedere l’opera prima di Riccardo Rossi. Forse invece ai sessantenni si. Lo sguardo amaramente consolatorio e buonista di Rossi potrebbe piacere a loro che sono stati quarantenni proprio quando i quarantenni si auto compiacevano, si auto commiseravano e si autoassolvevano. Eppure il film di Rossi è comunque un film riuscito perché funziona alla fine e perché fa trasparire la grande passione, forza di volontà e serietà con cui l’attore porta avanti il suo impegno di attore e regista. Senza la prosopopea oramai baronale e senatoriale che contraddistingue spesso i suoi colleghi più noti, rispetto ai quali Rossi è sbocciato come fiore tardivo.
Insomma, il goal non l’ha segnato ma il coraggio di tirare il rigore, Riccardo, l’ha avuto.
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