Il tema dell’immigrazione è usato per dividerci.
La povertà, i senzatetto, il collasso del welfare state esistevano molto prima che arrivassero i migranti.
A quattro anni di distanza dall’ottimo Sorry We Missed You… La Vecchia Quercia è tornata!
Il maestro britannico del cinema di impegno sociale, da sempre impegnatissimo a sinistra in difesa della working class e degli emarginati dalla Storia, ci regala The Old Oak, nelle sale italiane dal 16 Novembre, distribuito da Lucky Red.
Il titolo della pellicola si rifà al nome del pub (sono una delle istituzioni più consolidate ed apprezzate della società britannica; non per nulla, il loro nome è l’abbreviazione di public house) intorno a cui ruota la vicenda, ultimo ed unico punto di ritrovo a disposizione degli abitanti di una cittadina mineraria che, un tempo, era un’industriosa località dell’Inghilterra ma oggi, dopo oltre trent’anni di ininterrotto declino, sta lentamente diventando un luogo fantasma.
È uno dei campi di battaglia tra la classe operaia sindacalizzata ed il conservatorismo feroce di Margaret Thatcher che dichiarò guerra alle Trade Unions e la vinse, a metà degli anni ’80. Non viene menzionato ma il film è girato nella contea di Durham, Nord-Est dell’Inghilterra, nei pressi di Newcastle (come qualsiasi football fan può intuire dalla maglietta della squadra di calcio indossata da Rocco, uno dei disperati residenti locali).
Qui le case vengono acquistati a prezzi irrisori da holding immobiliari con sede altrove. I clienti le acquistano senza neanche disturbarsi di vederle, avendo il solo obiettivo di rivenderle, affittarle o comunque estrarne un profitto. Charlie (Trevor Fox), un irlandese stabilitosi in paese da anni e dedito alla moglie malata, affronta con durezza gli agenti immobiliari quando scopre che, svendendo le case sfitte, abbattono il valore anche del proprio appartamento.
Il proprietario del pub, Tom John Ballantyne (un corpulento Dave Turner), lo tiene aperto senza entusiasmo: è un uomo solo, la moglie lo ha lasciato e non è facile rifarsi una vita in un villaggio in via di spopolamento; ha soltanto l’affettuosa compagnia di un cagnolino, abbandonato come lui.
In questo contesto assai poco idilliaco piombano, come alieni, alcune famiglie provenienti dalla Siria, scaricate da pullman noleggiati dalle autorità britanniche preposte alla sistemazione dei rifugiati, vittime della terribile, ultradecennale guerra civile siriana.
È quindi inevitabile lo scontro con la popolazione locale, scarsamente propensa ad accogliere un nucleo di persone completamente estranee al proprio tessuto sociale e culturale.
Eppure, anche se molto a fatica e superando le iniziali reciproche diffidenze, la convivenza tra le comunità porterà frutti inaspettati, grazie da un lato alla memoria dei principi di internazionalismo e solidarietà propri dei vecchi minatori e dall’altro al desiderio delle famiglie siriane di trovare un luogo dove trovare rifugio: Yara (Ebla Mari, attrice siriana 25enne) si farà portavoce della necessità di questo incontro, con tutta l’energia e la speranza giovanili di cui dispone.
Dal canto suo, il disilluso T.J., davanti alla ostilità manifestata verso i rifugiati dagli avventori del suo pub, prenderà coscienza della terribile ingiustizia che viene perpetrata ai danni dei più deboli, comprendendo che “Ce la prendiamo sempre con chi sta sotto e non con chi sta sopra, perché è più facile”.
Con sempre maggior convinzione, darà tutto il supporto possibile ai rifugiati e alle poche persone locali che li aiutano, arrivando a riaprire il retro del pub – in disuso da decenni – per organizzarvi pranzi collettivi a beneficio sia dei nuovi arrivati, sia dei più poveri o soli tra i residenti.
Quasi un luogo dell’utopia, ove condividere un pasto cucinato insieme rappresenta un momento di forza ed unione, come ben sapevano i minatori in sciopero e le loro famiglie; impossibile, a tale proposito, non citare il bellissimo Pride di Matthew Warchus.
La vicenda, narrata con la consueta passione dal “giovane” regista 87enne, in storica coppia con lo sceneggiatore Paul Laverty, è una nuova tappa nello straordinario percorso narrativo di Ken Loach, che ha sempre descritto le contraddizioni e le iniquità del sistema capitalistico.
Durante una vera e propria tournée in Italia per presentare il film, Ken the Red ha voluto parlare in luoghi-simbolo delle lotte sociali come lo Spin Time Labs (ove ha pronunciato le parole che avete letto in apertura di post) o l’ex fabbrica Snia Viscosa a Roma.
Noi gli auguriamo 1000 di questi film.
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