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Al Cinema Farnese di Roma si è svolta la 23ª edizione dell’Asian Film Festival diretto da Antonio Termenini, con diverse sezioni di grande interesse, che hanno offerto l’opportunità di dare uno sguardo a cinematografie meno note in Europa.

È il caso in particolare del Thailand Day dedicato alla cinematografia thai con il sostegno dell’Ambasciata della Thailandia in Italia, dell’Ente del turismo thailandese e della Thailand Creative Culture Agency. Un’eccellente occasione per il pubblico di immergersi nel cinema contemporaneo di questo splendido paese del Sud-est asiatico. Ospite di questa edizione è stato il regista e produttore Panu Aree.

Tra i titoli più interessanti, Doi Boy di Nontawat Numbenchapol, è una storia ambientata nella bellissima e animata città di Chiang Mai. Meta turistica e sede di una prestigiosa università, la capitale del nord della Thailandia è qui mostrata nei suoi aspetti più nascosti ed oscuri attraverso gli occhi di Sorn, un rifugiato della minoranza etnica Shan.

Infatti, anche se la vicenda si apre tra go-go bar e club gay, evidenziando la famigerata facciata libertina e dissoluta del Paese dei sorrisi, la traccia narrativa di fondo segue la linea di faglia del conflitto a bassa intensità che ha origine nel cosiddetto Triangolo d’oro: il confine tra Thailandia, Laos e Myanmar è da sempre crocevia di traffici sporchi, dalle metamfetamine prodotte illegalmente in laboratori clandestini nella giungla birmana al traffico di esseri umani (lavoratori non in regola, giovani avviati alla prostituzione…).

Il giovane Sorn (Awat Ratanapintha), insieme ai suoi amici, alterna sesso a pagamento a manovalanza per qualsiasi lavoro, fatto alla maniera del caporalato più bieco: un pick up passa da un punto di raccolta per strada e carica i disperati che sono in attesa di svoltare la giornata. Il tutto in attesa del rilascio dei documenti che gli consentirebbero di uscire dalla clandestinità e trovare lavori decisamente più dignitosi.

Ma poi, un giorno, Sorn incontra un nuovo cliente, Ji (Arak Amornsupasiri), un poliziotto che vive una doppia, tripla vita. Ha una moglie, incinta, che lo aspetta ansiosa a casa la notte, ma soprattutto è coinvolto in operazioni dirette da apparati deviati dello Stato, con esecuzioni extragiudiziali di oppositori politici e attivisti per i diritti umani.

Ji ricatta Sorn: gli farà avere passaporto e soldi se accetterà di condurlo in uno dei remoti villaggi sulle colline, dove far sparire l’attivista Wuth (Bhumibhat Thavornsiri).

È questo il punto di svolta narrativo di Doi Boy: alla fine prevale l’umanità e la voglia di riscatto morale dei protagonisti, che rinunceranno ognuno a qualcosa di importante per sé stessi pur di porre fine alla scia di violenza che segna da decenni quel lembo d’Asia.

Violenza, guerra, oppressione che sono purtroppo da tantissimo tempo la condizione di un altro meraviglioso paese asiatico, la Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare che si è impadronito del potere con un colpo di Stato nel 1962 – ma sin dal 1948, appena ottenuta l’indipendenza dalla Corona britannica, il paese è tormentato da crisi drammatiche.

È qui, nella sua capitale Yangon, che si svolge Ma – Cry of silence, del regista birmano The Maw Naing (produzione Myanmar, Corea del sud, Singapore, Francia, Norvegia, Qatar).

Il film è stato premiato al Busan International Film Festival.

Ma – Cry of Silence” – Questa è la motivazione – mostra la resistenza silenziosa di donne operaie in una fabbrica in Myanmar. Con coraggio e vigore prende vita sul grande schermo una storia vera, tutta al femminile, di rivendicazione e riscatto sociale. In un microcosmo asfissiante di sfruttamento e violenza, alcune donne si ribellano alla prepotenza del capitalismo, facendosi protagoniste della propria vita, in un dramma silenzioso e assordante.

Il regista The Maw Naing trova la giusta distanza dal materiale narrativo, riuscendo a costruire un testo filmico toccante e riflessivo, alternando con successo le tradizioni e le innovazioni del linguaggio cinematografico”.

Ma - Cry of Silence
Ma – Cry of Silence

E infatti, la vicenda è una attenta e partecipe ricostruzione della realtà claustrofobica di un gruppo di donne, di umile estrazione sociale o di origine etnica non bamar (il gruppo etnico dominante in Myanmar), che vengono sfruttate in una delle tante fabbriche tessili del paese – definite sweatshop dagli attivisti per i diritti dei lavoratori –  e costrette a vivere in dormitori collettivi per risparmiare il più possibile i magri salari ricevuti.

Salari che spesso vengono pagati con intollerabile ritardo, tanto da spingere le pur mansuete e intimorite operaie ad intraprendere azioni, con sempre maggior coraggio, per rivendicare ciò che spetta loro. La più determinata è Nyein Nyein (Kyawt Kay Khaing), che incita le altre.

È un affresco corale, in cui il regista segue in particolare Mi Thet (Su Lay), una delle lavoratrici più giovani, la quale – anche se assorta in sogni di un futuro migliore – si unirà alla lotta contro ignoti padroni e i loro feroci lacché.

Inutile dire che le coraggiose ragazze birmane pagheranno un prezzo altissimo per aver chiesto soltanto ciò che era giusto.

Nel festival italiano, invece, l’opera ha ricevuto il Premio al film più originale ex aequo con il film indonesiano Tale of the Land.

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