Con la consueta cerimonia di premiazione, si è conclusa la sedicesima edizione della rassegna sulle cinematografie orientali, che ha proposto lungometraggi, documentari e cortometraggi provenienti da Indonesia, Filippine, Cina, Taiwan, India, Pakistan, Sri Lanka, Azerbaijan, Iran, Turchia, Libano e Israele.
Il Premio della giuria per il miglior film è stato assegnato ex aequo a A Midsummer’s Fantasia, del sudcoreano Jang Kun-Jae (“L’idea di filmare l’immaginario di un autore e il necessario confronto con la ricerca rendono il film originalissimo perché si misura con una delle storie più difficili da raccontare, quella del cinema”) e a Oblivion Season, dell’iraniano Abbas Rafei. Quest’ultimo è l’ennesimo, durissimo j’accuse contro la violenza di genere, in un paese dove purtroppo un regime ad esplicita connotazione religiosa crede di poter mantenere il controllo attraverso l’oppressione della parte migliore della società: i giovani e le donne come la protagonista, che – pur essendo oltraggiata dal marito violento per il suo passato scabroso – si mette alla guida del furgoncino del consorte per guadagnare i soldi necessari a curarlo.
Il Premio del pubblico per il miglior film è andato a Taklub, l’ultimo lungometraggio del celebre regista filippino Brillante Ma Mendoza: dopo il passaggio di Haiyan, uno dei terribili tifoni che devastano le Filippine quasi ogni anno, tre abitanti della città di Tacloban sono accomunati dal disperato tentativo di ricostruire il senso di un’esistenza andata in frantumi. Struggente la ricerca da parte di Babeth, una donna di mezza età, che vuole trovare i resti di tre dei suoi figli; Erwin e il fratello maggiore hanno perso i genitori e ora devono prendersi cura della sorella più piccola; Larry, rimasto vedovo, cerca consolazione nella fede cattolica fino a caricarsi sulle spalle una croce a grandezza naturale in una sorta di rappresentazione permanente della Passione. Alla fine, però, sopraffatto dal dolore, seppellirà in effige quel Cristo cui aveva affidato le residue speranze in una vita dignitosa. Come di consueto nel suo cinema, Mendoza ricorre ad una tavolozza di colori in chiaroscuro degna dei pittori fiamminghi per una splendida, dolente descrizione dell’inferno in terra.
Un rigoroso bianco e nero caratterizza invece Tikkun, dell’israeliano Avishai Sivan, che non ha raccolto premi ma ha sicuramente colpito il pubblico con questa incursione nel mondo del fondamentalismo religioso – per una volta, non islamico… Al di là delle polemiche, Sivan, regista e artista visuale, costruisce un’opera complessa (forse persino troppo) al cui centro colloca il giovane Haim-Aaron, studente chassidico allo Yeshiva, e le trasformazioni sia fisiche che spirituali alle quali va incontro in un singolarissimo percorso sul crinale tra la vita e la morte. All’inizio monolitico nella sua adesione ai rituali ortodossi, Haim si scopre dilaniato tra la purezza della fede e la scoperta dell’umano: “Due anime in una vita sola”, si lamenta il padre, dedito alla famiglia e alla macellazione kosher (animali d’ogni sorta – bovini, equini, insetti, persino coccodrilli – giocano un forte ruolo simbolico nel film). Interpellato, il saggio rabbino anziano declama che è proprio dai luoghi più empi che si può meglio contemplare il divino; l’esplorazione della realtà terrena condurrà Haim ad un destino al quale il padre non oserà opporsi.
Infine, per i documentari sono stati premiati ex aequo dalla Giuria Dejide, del cinese (della Mongolia interna) Zuo Gehe, e Sigh, del turco Metin Kaya, mentre il Premio del pubblico è andato a My love, don’t cross that river, del sudcoreano Jin Mo-Joung.
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