Come raccontare l’ascesa e la caduta di un boss, il successivo entrare in immersione nell’anonimato come collaboratore di giustizia, da un punto di vista umano, senza nessun tipo di giudizio morale, quasi facendo volare un drone mimetico che, dalla fino degli anni ’60 alla contemporaneità, segua le vicende criminali ma soprattutto familiari del boss camorristico “Alèndelon”, nome di battaglia di Marcello Cavani, personaggio ispirato alla reale vicenda di Paolo Di Lauro, più noto come “Ciruzzo ‘o Milionario”?
L’interesse di Piva non è quello antropologico di Matteo Garrone che con Gomorra ha anche raccontato la commistione osmotica tra società civile, Sistema Camorristico ed economia reale, cercando gli effetti fiammeggianti di questo acido, di questa miscela deflagrante, sulle fisiognomiche e sui corpi di chi è nato e vive nei territori nutriti da questo concime mefitico e velenoso che ha fatto crescere una mala pianta dal tronco molto più forte di tanti tenui alberelli nati dal terreno della retorica, delle farraginose leggi, dell’ipocrisia e della finzione “scenica” dello Stato ufficiale.
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L’interesse di Piva non è neanche quello del tratteggiare una figura di boss da tragedia greca, shakespeariana, che eserciti comunque un carisma ed un fascino eroico, epico, titanico, seppur al negativo. Come già fatto da Coppola con Don Vito Corleone Brandiano ne Il Padrino o, ancor più, con la figura di Raffaele Cutolo, nella opera prima di Giuseppe Tornatore, Il Camorrista, luciferinamente ed ambiguamente rappresentata da un altro grandissimo attore carismatico come Ben Gazzarra. A questo proposito, si vada a vedere la inquietante e “cinematografica” intervista fatta tra le sbarre a Cutolo da Joe Marrazzo nei primissimi anni ’80. Lo sguardo ironico ed obliquo, nelle cui sfumature poteva esserci approvazione o anche una condanna a morte, rende l’idea della concentrazione di potere in un gesto o in uno sguardo, appunto, potere che non poteva esprimersi liberamente come il Potere Ufficiale e che era tutto racchiuso in un tono di voce, in un movimento delle mani, in un sorriso ambiguo prima di esplodere, letteralmente, in una bomba, in un colpo di pistola, in una sventagliata di mitra.
Piva cerca di avvicinare le vite e le vicende di alcuni camorristi e del gruppo che si andò fortificando intorno alla figura di Alèndelon/Ciruzzo o’ milionario con la stessa sospensione del giudizio che adottò – in modo più divertito – per avvicinare i piccoli malavitosi pugliesi nel suo primo film La capa gira. Ma sei i delinquenti baresi sono visti effettivamente come un fenomeno marginale, periferico, pasoliniano; i vertici camorristi napoletani vanno invece a intrecciare la loro corda criminale nella treccia dell’economia apparentemente sana, insieme alle corde parallele dei grandi eventi storici italiani e mondiali e le opportunità che offrono, dal terremoto in Irpinia al Boom economico iberico e catalano.
Il punto di vista di Piva però resta neutro, talvolta perfino ironico se ci sono dei momenti di possibile comicità, ma questo non sottende ad una simpatia o ad una suggestione nei confronti dei personaggi raccontati quanto di una volontà antiretorica del regista nel fuggire gli stereotipici di genere. In questa sua volontà di fare un film godibile, ben recitato, ritmato ma non così prevedibile, Piva è anche aiutato da un cast di attori in stato di grazia. Innanzi tutto il protagonista assoluto del film, Francesco Scianna, che dimostra di avere grandi capacità nel cogliere nell’interpretazione del personaggio anche le sfumature meno evidenti, mediando tra le rare immagini colte di nascosto di boss delle diverse mafie e l’immagine con l’immagine che abbiamo come spettatori cinematografici del leader mafioso, raccontato oramai da quasi novanta anni di film sul tema, a partire da Piccolo Cesare o Scarface.
Scianna dimostra di essere un attore eclettico, che lavora di cesello con il suo volto e che ha già scontato ormai da tempo il ruolo puramente estetico come protagonista del film cartolina Baarìa di Tornatore. Film con cui ha raggiunto la popolarità ma anche condanna ad essere considerato quasi un bel volto da vecchio fotoromanzo o da soap opera americana. Anche Valentina Lodovini, nel ruolo di moglie di Alèndelon riesce ad essere credibile nell’ambiguo ruolo della moglie di Alèndelon, personaggio che rifiuta le origini malavitose degli agi in cui vive ma non sa rinunciarvi e quindi si limita a non voler vedere né sapere di cosa si occupa il marito.
Conferma il suo carisma attoriale ma anche la naturalezza ed il dinamismo con cui copre diversi ruoli in questo cinema di genere, Salvatore Striano che, dalla grande prova data in Cesare deve morire dei Fratelli Taviani, non sta sbagliando più un colpo (nel vero senso della parola, visto che spesso viene impiegato in film sulla malavita campana) e che attendiamo con grande curiosità anche in ruoli in cui la bravura venga messa alla prova in contesti più sfumati.
Milionari è primo per incassi in Campania. Sicuramente l’interesse di andare a vedere un film che “parla di noi”, che sia per la Campania martorizzata ma anche parte di un Sistema di potere ed economia parallelo piuttosto che per i trentenni indecisi su tutto che si identificò molti anni fa ne L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, ad esempio, è una delle leve principali che ha sempre mosso il pubblico a vivere il rito collettivo di una proiezione cinematografica. Ed ancora oggi, nell’epoca delle visioni private su piccolo o piccolissimo schermo o device, c’è l’esigenza primordiale di vivere insieme ad altri, pubblicamente, come a teatro da tremila anni e al cinema da almeno 130, una storia che catalizzi le emozioni, le riflessioni, la dialettica.
E quando il cinema “parla di noi”, ecco che si sente l’esigenza di uscire di casa, percorrere le strade reali, entrare in una sala e spente le luci, immaginare vicino a se qualcuno che si stia appassionando a Milionari perché è parte di quel sistema criminale oppure perché lo contrasta e lo avversa. Comunque, in entrambi i casi, in quel cinema magari di Napoli o di Casoria, chiunque sia in sala non è spettatore neutro e neutro non è il film perché sta parlando proprio degli spettatori. In somma, Milionari è un ottimo film di genere, una ottima prova ancora per Alessandro Piva, un’altra intuizione per la Europictures che lo distribuisce, dopo lo sperimentale Pasolini di Abel Ferrara. Ma, ancor più, è un esperimento sociologico di classe, cinematografico, artistico, per capire dove stia andando gli italiani ed i campani in particolare. Se sono con Alèndelon, se sono contro o ancora se, come per decenni è avvenuto, restano in un territorio indefinito, grigio ma talvolta illuminato dal rosso dei fuochi.
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