Legend
I gemelli Reggie e Ronnie Kray (istintivamente spietato il primo, sociopatico compulsivo il secondo) scalano rapidamente i vertici della malavita di Londra annientando i rivali e spingendo le autorità locali in situazioni compromettenti. Rafforzano il loro dominio con aggressioni, rapine e omicidi, siglano alleanze con boss americani e cercano di trasformare Londra nella Las Vegas d’Europa. Ma il successo rende l’instabile Ronnie sempre più imprudente e quella che era stata un’ascesa senza ostacoli e un’operazione straordinariamente redditizia rischia di degenerare. Ispirato a una storia vera.
Ci deve essere un banale fraintendimento alla base della rilettura del gangster movie in atto nel cinema contemporaneo. Si pensa ingenuamente che siano sufficienti una fotografia sontuosa e fumosa, abiti di scena e scenografie appropriate, magari anche un divo truccato, meglio se poco riconoscibile. Abbiamo da poco osservato questa prassi nel loffio Black Mass, presentato al Festival di Venezia ed ecco che la ritroviamo in Legend, in chiusura della Festa del Cinema di Roma. Il modello, seppur ridotto ai suoi minimi termini, deve essere quello de Il padrino dal quale è stato estratto un “format” dagli esiti nefasti: boss malavitosi potenti incarnati da attori con la fisionomia prosteticamente modificata. Inutile dire che del film di Coppola c’è ben poco in Legend così come di “leggendario” alla fine della visione restano solo le sue vistose falle.
[youtube]https://youtu.be/4MCWvzSIG54[/youtube]
Innanzitutto la sceneggiatura, grande rimosso del gangster movie odierno, cosa che lascia alquanto interdetti in questo caso, dal momento che alla regia troviamo quel Brian Helgeland che firmò a suo tempo script pregevoli per pellicole impeccabili quali, tra le altre, L.A. Confidential o Mystic River.
Come spesso accade, potrebbe essere la storia vera alla base del film ad averne inficiato struttura dal racconto, pathos e senso del dramma, ma viene in ogni caso difficile giustificare un tale vuoto narrativo e la totale assenza di personaggi a tutto tondo. Ma a che servono d’altronde questi ultimi, devono aver pensato regista e produttori, se li si può sostituire con un’attrazione di ascendenza circense che vede il solitamente ottimo Tom Hardy sdoppiarsi in due gemelli omozigoti e criminali nella Londra degli anni 60?
Per quanto allettante, il trucco non basta a far digerire questa storia / non storia, dove i due gemelli Reggie e Ronnie Krai, più serioso il primo, piuttosto burlone il secondo, in quanto affetto da schizofrenia paranoide, spadroneggiano nell’East End della Swinging London. A narrare le loro vicende concorre la voice over della sfortunata fidanzata del sobrio Reggie, incarnata da un’esangue Emily Browning a cui la chioma cotonata e il ripetuto gesto di ingollare ansiolitici non riescono a donare la sufficiente aria di costernazione o sofferenza per il suo amore “difficile” con il bel criminale. Già perché Legend, dopo essersi prodigato in una lunga presentazione dei suoi personaggi, si trasforma in una love story che non strappa però nemmeno una lacrima.
Non pervenute sono le rapine, assenti gli inseguimenti, poco o nulla si sa dei piani criminali dei due gemelli, anche se a circa metà del film, pare di intuire che il problema al centro di tutto potrebbe essere l’idea utopica del folle Ronnie di stabilire i loro affari di gioco d’azzardo in Nigeria. Ma è solo un’esca lanciata e poi abbandonata lì; il quid della questione, purtroppo, un po’ come il beckettiano Godot, non arriverà mai.
Si parla molto in compenso in Legend, in articolati dialoghi che sfiorano il vaniloquio, dove ogni tanto si cita la Grecia, per ragioni enogastronomiche (si ordina del retsina al ristorante), etimologiche (ci viene spiegato il significato del termine “utopia”) e narrative (si allude al ritorno di Odisseo ad Itaca, anche se lo si confonde con Agamennone), ma dell’unità di luogo tempo e azione della tragedia non vi è traccia. Né si respira il dramma di questi personaggi, che vengono dal nulla e vanno verso un epilogo narrato in didascalia (d’altronde, bisogna ricordarcelo, questa è una storia vera), non hanno traumi né obiettivi (l’utopia della Nigeria non riesce a mascherare questa assenza), non sono mai realmente in pericolo. Bisogna accontentarsi di una rissa al pub, di un cattivo che viene ucciso con un colpo sparato in fronte, e poi c’è anche un corpo a corpo tra gemelli che naturalmente, data la doppia interpretazione di Hardy, è tutto in montaggio proibito.
Ecco, non ci resta che ammirare l’attore di Bronson e Locke (tanto per citare due sue prove di ben altro tenore) in doppia versione, con il doppiopetto tinta unita per il sobrio Reggie, e con il gessato, gli occhiali e la dentiera che lo fa sputacchiare copiosamente in versione Ronnie. Legend è tutto qui: una clownerie gratuita che non rende giustizia, anzi svilisce il suo protagonista e, dopo pochi minuti, tedia lo spettatore.
[Thank you, Quinlan!]