Venti premi e cinque anni di attesa per vedere sugli schermi italiani l’opera seconda del britannico Andrew Haigh (dopo il durissimo e da noi, ovviamente, inedito Greek Pete, uscito nel 2009), da lui stesso sceneggiata. Sole dieci copie nelle sale italiane per un film di struggente bellezza che ci offre una storia d’amore talmente autentica e verosimile da farci quasi dimenticare che a viverla, di fronte ai nostri occhi, sono due uomini ed è questo il punto: amore etero ed amore gay seguono regole diverse? Le dinamiche tra gli esseri umani mutano o ciò che le fa sembrare diverse è la prospettiva, spesso omofobica e dettata dalla paura, dalla quale le osserviamo?
Haigh (classe 1973) riesce a regalarci una narrazione limpida e pulita, nonostante l’onnipresente pericolo di tutti i cliché del genere ed alcune, minimali, cadute di stile (c’era proprio bisogno della cocaina?). La luce, l’atmosfera, i dialoghi, la scelta dei due protagonisti, tutto concorre a fare di Weekend una delle produzioni più interessanti del decennio e sicuramente un’opera che dovrebbe essere utilizzata a fini didattici per formare una generazione autenticamente evoluta. Folle quanto attuale è, infatti, il dibattito sul tema nella bigotta Europa che, tranne rare eccezioni, continua a tollerare senza sforzarsi di comprendere, senza guardare con gli occhi dell’altro.
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Probabilmente, senza il successo di 45 anni, non avremmo mai visto Weekend sul grande schermo e tenuto conto dell’uscita microscopica (grazie per il coraggio, Teodora!), la sua permanenza senza il supporto del pubblico sarà durissima. Posto ciò, il film non va protetto e diffuso perché si parla di gay come se fossero specie in via di estinzione. Va protetto e diffuso perché è grande cinema. Il film (girato con un budget bassissimo ed in soli 17 giorni) è obiettivamente un gioiello e le dinamiche tra i due protagonisti sono, sebbene in chiave minimale e tipicamente british, affini a quelle che abbiamo ammirato in La vita di Adele di Abdellatif Kechiche con la differenza, e non è poco, che qui ci troviamo di fronte ad individui della generazione precedente rispetto alle adolescenti protagoniste del vincitore della Palma d’Oro a Cannes 66 e che questa produzione è precedente!
Qui dominano la rabbia e la frustrazione per una vita senza senso, circondata da individui superficiali (“Essenzialmente, sono soltanto degli idioti”. La differenza – tra etero e gay – “è che ballano di più”, afferma sarcasticamente l’artista) che non comprendono chi non si conforma, chi (apparentemente, almeno) lotta per ridisegnare se stesso. Favolosa, inoltre, nel suo essere cinetrash la citazione da Camera con vista di James Ivory (“I ragazzi che corrono nudi lungo il lago”) che porta ad un involontario quanto subitaneo coming out (in tutti i sensi) del protagonista.
Ciò che porta ad ammirare il lavoro qui svolto da Andrew Haigh (passato nell’assoluta invisibilità al Festival Internazionale del Film di Roma 2011) è la sincerità, verso gli altri e verso se stessi. Non esiste una differenza, genetica, comportamentale, mentale, fisica tra gay ed etero. Esiste un diverso set di condizionamenti e discriminazioni cui tutti gli esseri umani, nessuno escluso, sono costantemente sottoposti. Siamo tutti tenuti a combattere per affermare la nostra identità.
Una visione da non perdere.
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