Ci sono due mondi in Fuocoammare di Gianfranco Rosi, quello arcaico (e ottuso) degli abitanti di Lampedusa, e quello dei migranti in fuga sul Mediterraneo e destinati alla catastrofe.
L’occhio pigro
Samuele ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi 20 anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
Tutto è ancora fermo al giugno del 1961, quando sul numero 120 dei Cahiers du cinéma Jacques Rivette scriveva: “Guardate, in Kapò, l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo”. L’uomo in questione era Gillo Pontecorvo, principale destinatario di un articolo dal titolo inequivocabile: Dell’abiezione.
Sono trascorsi quasi cinquantacinque anni, ma il punto della questione non si è spostato di molto, come dimostrano le reazioni a Fuocoammare, nuovo lungometraggio documentario che Gianfranco Rosi ha portato in concorso alla sessantaseiesima edizione della Berlinale. Se in Germania il film sembra essere stato accolto con grande interesse, e a pochi giorni dalla conclusione del festival continua a essere considerato uno dei vincitori più accreditati dell’Orso d’Oro, in Italia ci si è divisi da subito in due fazioni: da un lato coloro che vedono nell’operazione di Rosi una scelta coraggiosa, estrema ma doverosa, dall’altro i detrattori, che attaccano Fuocoammare per gli stessi motivi che spinsero Rivette a disprezzare Kapò. Alla stessa stregua di quella querelle, anche l’agitazione attorno al lavoro di Rosi riguarda un’unica inquadratura, centrale però nello sviluppo e nel senso che vuole acquistare il film.
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Dopo aver mostrato in ogni suo dettaglio le difficili operazioni di salvataggio di un barcone carico di disperati in fuga dalla Libia da parte delle autorità italiane, Rosi entra con la videocamera nel barcone, oramai vuoto di persone vive ma ancora pieno dei cadaveri di coloro che non ce l’hanno fatta. La morte, nella società dell’ipervisione, è un tabù. Vedere la morte non è etico. Sempre Rivette scriveva: “Ci sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido, e la morte è una di queste”.
Il punto della questione, una volta di più, non è però il cosa può essere mostrato, ma il come. Chi si è interrogato, anche con termini forti, sulla sequenza del barcone di Fuocoammare, nella maggior parte dei casi non ha rigettato in sé l’idea che quei corpi ammassati senza vita potessero diventare oggetto dello sguardo di Rosi; il problema viene a crearsi quando ci si accorge che quell’inquadratura è studiata, con il quadro cinematografico che prende il sopravvento sull’attimo, sull’istante. Si suppone dunque che vi sia un calcolo estetico, che la morte reale diventi in ogni caso elemento di studio per l’immaginario. C’è però un punto su cui in pochi si sono soffermati: quell’inquadratura, centrale come si è scritto per la messa a fuoco del film, acquista nella sua postura un potere sacrale. Il corpo martoriato di uomini e donne, il corpo anonimo, è il centro. Un corpo che spesso durante i servizi dei telegiornali non viene mostrato, per non turbare la suscettibilità degli spettatori. C’è una lunga sepoltura illacrimata, nel corso di questi anni, con il Mediterraneo a fungere da immensa tomba; i numeri rimbalzano da un media all’altro, parlando di migliaia e migliaia di morti, ma le immagini principalmente diffuse sono quelle dei “fortunati” che hanno oltrepassato il guado, finendo nei centri di accoglienza. I numeri impressionano, ma restano numeri; nello sfondare la parete dello sguardo censurato Rosi mostra cosa “significano” quelle cifre, in un’operazione non poi così dissimile dalle cineprese che per prime ripresero l’apertura dei campi di sterminio nazisti.
Di tutto questo ne è ben consapevole Rosi, che resiste al desiderio di concentrare l’attenzione su una o più storie dei migranti: tolta la breve parentesi di una preghiera/racconto di profughi nigeriani (segmento in cui la retorica deborda in maniera poco convincente), questi restano poco più che fantasmi, figure spettrali che nel tragitto in mare hanno perso ogni specificità, e vengono mostrate solo come popolo, massa. Un mondo in viaggio che si scontra, senza mai incontrarsi, con quello degli isolani di Lampedusa; questi ultimi vivono in modo quasi arcaico, ancorati a una vita che non sembra più appartenere alla società contemporanea.
In questa dicotomia tra lampedusani e migranti, nel viaggio infernale che sta compiendo Fuocoammare trova il suo Virgilio in Samuele, un dodicenne che non si trova molto a suo agio sul mare e si appassiona solo alla sua fionda; è nel suo occhio pigro – che il ragazzo deve combattere portando una benda – che si nasconde la verità di Rosi. Il mondo occidentale, così abituato a guardare, si è dimenticato come si fa a osservare; posa con pigrizia il suo occhio sull’universo circostante, dandolo sempre per scontato ed evitando di soffermarsi su ciò che non procura piacere. L’ansia che attanaglia Samuele togliendogli di quando in quando il respiro è l’ultimo singulto di un’esistenza che non vorrebbe farsi omologare al senso comune. Come il dottore che non riesce ad abituarsi alle atrocità con cui ha a che fare all’approdo di ogni nuovo barcone; ma anche con l’occhio pesto, sanguinante, di un migrante scioccato, che non ha neanche la forza per parlare e serra le labbra, racchiudendo il dolore.
Nella sua ricerca di uno sfogo di fronte a qualcosa che non si può accettare e che deve essere mostrato, Rosi non può che essere anche impotente, perdendo volutamente per strada alcune narrazioni ipotetiche – il pescatore subacqueo. Restano le fucilate metà gioco metà desiderio di Samuele, contro il cielo, su un pontile che dovrà abituarlo a farsi lo stomaco. Impresa a volte impossibile.
[Thank you, Quinlan!]
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