Room_locandina italiana

Lenny Abrahamson si conferma tra gli autori più interessanti del momento con Room, un mix inesorabile tra melodramma e thriller psicologico, presentato alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma.

Guardo il mondo da un lucernario

Come ogni buona mamma, Ma dedica tutta se stessa alla felicità di Jack, 5 anni, educandolo con calore e amore. Gioca con lui, gli racconta storie, gli propone tutte le attività tipiche del rapporto mamma-bambino. Tuttavia, la loro vita è tutto fuorché tipica: sono intrappolati in uno spazio senza finestre di 9 metri quadri che Ma chiama “La stanza”.

Non sempre gli autori europei sanno abbracciare con convinzione dinamiche produttive d’oltreoceano, riuscendo magari anche a mantenere intatta la loro originalità di sguardo. L’irlandese Lenny Abrahamson, che si è fatto notare dalle nostre parti vincendo il Festival di Torino nel 2007 con il grazioso e minimalista Garage, è di certo uno di questi.

Anzi, possiamo ben dire (e auspicare) che con il suo nuovo film, Room, in cui l’innalzarsi di budget e ambizioni è accompagnato dal proficuo innesto con elementi narrativi più “classici”, la carriera dell’autore raggiunge nuovi e interessanti equilibri, e pare veleggiare sicura verso la Mecca del cinema. Nato da una coproduzione tra Irlanda e Canada, Room, come già il precedente film di Abrahamson, l’originalissimo Frank, è un’esplorazione accurata nelle dinamiche emotive e psicologiche dei suoi personaggi, cui si affianca questa volta una struttura di massima più oliata: quella del melodramma familiare made in Usa.

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Presentato in anteprima alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma e tratto dall’omonimo romanzo di Emma Donoghue (edito da noi con il titolo di Stanza, letto, armadio, specchio), il film è incentrato sul rapporto madre-figlio e ambientato per buona parte nella stanza cui fa riferimento il titolo. Qui vive infatti Ma (Brie Larson) con il figlio di cinque anni Jack (Jacob Tremblay), avuto dall’uomo che da oltre sette anni la tiene reclusa in un prefabbricato blindato e insonorizzato. Quella tra Ma e Jack è una relazione dunque esclusiva, le cui problematiche si ampliano ulteriormente quando i due riescono a ritrovare la libertà.

Sarebbe un errore però considerare Room come un film suddiviso in due, con una prima parte concentrata sui rituali quotidiani della prigionia e una seconda sul faticoso reintegro nel mondo libero. Forte di una sceneggiatura dal meccanismo impeccabile, il film di Abrahamson amalgama infatti indissolubilmente tutti i suoi elementi, facendo riecheggiare dialoghi e situazioni e, soprattutto, allargando progressivamente – grazie all’innesto di nuovi personaggi, location e situazioni – la sua tragedia, che da intima, “da camera”, si fa man mano più corale.

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Dal canto suo, il talentuoso Abrahamson si muove con geometrica precisione all’interno della stanza/prigione, scandisce la quotidianità dei suoi protagonisti, suggerisce, senza spiegarla tutta e subito, l’anomalia di una situazione il cui graduale emergere rende la tensione sempre più montante e angosciosa. La prima uscita all’esterno del piccolo Jack ha dunque un forte impatto catartico, sottolineato dall’opportuna impennata di volume della musica. Ma non è tutto esattamente come da copione in Room perché quello che non ci si aspetta a questo punto è che il film continui a crescere, allargando il suo portato sia nella direzione delle emozioni che in quella dell’analisi dei personaggi.

Con pennellate brevi ma precise, Abrahamson costruisce il rapporto tra il bambino e la nonna, incarnata da una come al solito sublime Joan Allen. Ancor più concisa, ma di forte impatto, è poi la reazione del pater familias incarnato da William H. Macy, al ritorno della figlia con bambino al seguito. Lo sguardo primigenio purissimo con cui il piccolo Jake – cui sono affidati anche i brevi innesti di voice over presenti nel film – osserva il mondo è poi spiazzante, si pensi alla sua reazione di fronte alla vastità del cielo, che prima poteva osservare solo da un piccolo lucernario, o quella, ancora più commovente, relativa al suo primo incontro con il cane del nuovo compagno della nonna.

È un film ambizioso Room ma anche popolare, d’altronde i suoi referenti principali sono un classico del romanzo d’appendice quale Il conte di Montecristo e un romanzo di formazione universalmente noto come Alice nel paese delle meraviglie. Questi sono infatti i libri che Ma legge al piccolo Jake quando sono nella stanza, lo strumento perfetto per stimolare la sua curiosità e dunque prepararlo ad affrontare il mondo.
Come già accadeva in Frank anche qui l’immaginazione ha un ruolo centrale e determina il relazionarsi dei personaggi con l’esterno, dal momento che costituisce il loro scudo protettivo. Anzi, in realtà l’immaginazione è proprio il dono principale, lo scudo immunologico, il mix perfetto di vitamine con cui Ma alimenta Jake, il suo kit di sopravvivenza per affrontare il mondo. Room è d’altronde principalmente un film sulla maternità, ne ripercorre quell’aspetto esclusivo, il senso di isolamento, il riequilibrio delle relazioni all’interno di un nucleo familiare allargato e, infine, il suo potere redentorio. È Jake infatti a provocare la liberazione della madre e lei, come le farà notare una maliziosa un’intervistatrice televisiva, lo ha di fatto usato per liberarsi.

Le problematiche etiche infatti non mancano in questo melò intarsiato con le venature del thriller psicologico, che lascia emergere i nervi dello spettatore a fior di epidermide e lo spinge a mantenere il fazzoletto d’ordinanza sempre a portata di mano.

[Thank you, Quinlan!]

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