Forse per lui crescere è impossibile, ma non importa: Noah Baumbach con Mistress America ci regala un’altra delle sue tenere e crudeli commedie. E sa bene che ci può piacere. L’esperienza universitaria di Tracy, matricola del college a New York, non è emozionante come lei sperava. Anche la vita sociale nell’ambiente cittadino non è proprio soddisfacente. Almeno fino a quando non incontra Brooke, trentenne intraprendente sua futura sorellastra. Frequentatrice dell’ambiente mondano di Manhattan, Brooke aiuta Tracy a uscire dall’isolamento, trascinandola nelle sue folli avventure. C’erano una volta i college movie anni ’80, dove il/la protagonista voleva essere “popolare” ma magari si accasava con il nerd dal cuore d’oro, collezionava figuracce al ballo di scuola e si scontrava con genitori e professori, infine sceglieva i giusti “maestri” e imboccava la sua strada. Poi è arrivato Noah Baumbach, con quei personaggi che non riescono a crescere mai e si dibattono costantemente come proverbiali pesci fuor d’acqua, sospesi tra un vitalismo sfrenato e la consapevolezza che tutto sta per finire: la giovinezza, principalmente. C’è un profondo pessimismo alla base degli ultimi lavori del regista e sceneggiatore statunitense, un pessimismo solo parte lenito dalla tenerezza e dal sapido sarcasmo che animano lo sguardo dedicato ai personaggi, che sono certo molto amati dall’autore, ma di un amore contrastato e problematico. Dopo aver affrontato lo scontro generazionale tra quarantenni e ventenni in Giovani si diventa Baumbach con Mistress America, presentato alla Festa del Cinema di Roma, accorcia le distanze per raccontarci di trentenni e ventenni.

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Le due differenti decadi si incarnano qui rispettivamente in Tracy (Lola Kirke), studentessa annoiata di un college newyorkese con velleità da scrittrice, e Brooke (Greta Gerwig) la sua futura sorellastra nonché aspirante proprietaria di un ristorante alla moda. Complice la giovane età, Tracy è abbastanza sicura soprattutto di ciò che non le piace, animata da un’insopprimibile curiosità e da ingenti insicurezze, tutto sommato piuttosto certa di trovare la sua strada. I coetanei non la soddisfano molto e così conoscere la vivace Brooke, che la trascina tra party esclusivi, palestre e parrucchieri, rappresenta per lei una boccata d’aria fresca. O forse è solo l’occasione per immergersi in un mondo “altro”, assorbirne ogni dettaglio per poi dargli nuova forma in un racconto, che magari riuscirà a farla entrare nell’ambito club letterario dell’università. La protagonista sarà naturalmente lei, Brooke, e così il titolo di “Mistress America”. Ma “tradire” e “usare” così la sua nuova amica, è facile quanto foriero di tensioni affettive difficili da superare.

Tornano dunque in Mistress America tutti i temi abituali del cinema di Baumbach: il parassitismo economico e intellettuale, la perdita delle illusioni giovanili e l’eterna ricerca (davvero senza età) di un proprio posto nel mondo. E torna in scena anche la sua partner di vita e d’arte, Greta Gerwig, qui sdoppiata in un clone appena un po’ più giovane (assai promettente l’attrice Lola Kirke), ma che ripercorre grossomodo il percorso, emotivo e urbano, già tracciato dall’attrice e sceneggiatrice in Frances Ha. New York è più che mai protagonista in Mistress America e i suoi pregi e difetti, più volte decantati nei film e nelle canzoni pop, si vanno ad incarnare tutti nel personaggio di Brooke: inarrestabile, vulcanica, sempre pronta ad inseguire un’idea (per quanto bislacca) che le consenta di percepire l’accesso al sogno americano e la faccia sentire “king of the hill, head of the list”, come recita il più celebre inno dedicato alla Grande mela. Brooke è la diretta discendente dei primi abitanti di Five Points, ma il suo pionierismo è già stantio, Tracy, o chi per lei, la tallona e non sarà l’ultima né probabilmente la prima di quella oramai proverbiale “lista”. La storia si ripete dunque, fuori e dentro il film, dove innegabilmente riecheggiano, oltre ai soliti temi, anche l’usuale acume di Baumbach, il suo sarcasmo sferzante, in grado di esaltare quell’intreccio galvanico di disillusione ed esuberanza che da sempre caratterizza le pellicole da lui scritte e/o dirette.

Mistress America_middle_small

Ciò che salva Mistress America dal manierismo e dall’autocommiserazione (il senso di sconfitta è percepibile in ogni fotogramma) è l’assenza di autocompiacimento, aggirato grazie a quell’autodenuncia un po’ depressa che lo spinge a dichiarare, attraverso i suoi personaggi che l’originalità è oramai una chimera, “i giovani fanno solo dei pastiche” e anche se pensano di “essere più intelligenti degli altri”, inevitabilmente quando creano commettono “un tradimento”, della realtà, dei maestri del passato.

E così mentre tornano alla mente immagini e dialoghi delle commedie dei film di Woody Allen o di John Cassavetes e vari epigoni, diventa sempre più chiaro in Mistress America così come nei film passati e futuri di Baumbach, c’è sempre uno spazio per sostituire alla postmoderna sensazione del “tutto è già stato fatto”, una gustosa variazione sul tema, capace di rinnovare il canovaccio e di soddisfare le aspettative dello spettatore. Tanto lui adora “sentirsi a casa” e non “tradisce” mai il suo ruolo, resta lì, in attesa di un’altra storia, di altri personaggi da amare.

[Thank you, Quinlan!]

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