Ne La foresta dei sogni, Gus Van Sant tenta di raccontare per immagini il desiderio di morte di un uomo che non ha apparentemente nessun motivo per vivere. In concorso al festival di Cannes, una delle più cocenti delusioni dell’anno. Arthur Brennan ha deciso di raggiungere la foresta di Aokigahara, in Giappone, per togliersi la vita. Quando è sul punto di commettere suicidio, incontra un giapponese, che ha cercato a sua volta di uccidersi e ora è alla disperata ricerca del sentiero che lo porterebbe fuori dalla foresta. Arthur decide di dargli una mano, e i due uomini insieme intraprendono un viaggio disperato alla ricerca della salvezza, non solo fisica. Aokigahara non è un luogo conosciuto a tutti, probabilmente, eppure ogni anno decine e decine – a volte addirittura centinaia – di persone decidono di recarvisi all’unico scopo di togliersi la vita. In Giappone questa enorme foresta che si estende sotto lo sguardo vigile del Fuji-san è chiamata anche Jukai, ovvero “ampia foresta”, “mare d’alberi”. Aokigahara deve gran parte della fama, in patria, al romanzo Nami no tō di Seichō Matsumoto, pubblicato nel 1960 e incentrato su una coppia d’amanti che decide di mettere in pratica nella foresta un doppio suicidio rituale: pur permanendo cenni storici di precedenti suicidi nel folto della boscaglia, non è certo che questa pratica fosse così diffusa prima dell’uscita del romanzo di Matsumoto.
È più probabile che, come in altre zone boschive del Giappone, Aokigahara accogliesse gli anziani che mettevano in atto l’ubasute, il tradizionale abbandono della casa per morire in solitudine senza pesare sul clan di appartenenza. Una pratica mutuata da quella di molte specie animali.
Sono animali, insetti di vario tipo, le forme di vita su cui si sofferma da principio La foresta dei sogni, nuovo parto creativo di Gus Van Sant accolto in concorso alla sessantottesima edizione del Festival di Cannes: dalla corsa per la Palma d’Oro, da lui vinta nel 2003 con Elephant, Van Sant era escluso dai tempi di Paranoid Park.
Il ritorno sulla Croisette coincide però con la più clamorosa impasse creativa di un regista che fino a questo momento aveva dimostrato di sapersi destreggiare senza troppi problemi anche con progetti alimentari e opere meno personali (pur con notevoli momenti di stanca, il precedente Promised Land manteneva un livello standard inattaccabile). Alle prese con il “mare d’erba” di Aokigahara, Van Sant cade fin dalle prime sequenze in una fascinazione animista che non ha nulla di antropologico, ma cede semmai al fascino ambiguo della filosofia New Age. La cultura giapponese, incarnata nel personaggio di Ken Watanabe (altro aspirante suicida che il protagonista, uno spaesato Matthew McConaughey, incontra sul suo cammino proprio mentre sta cercando di realizzare la dipartita dal mondo terreno), si trasforma in un bignami di ovvietà senza troppo costrutto, alimentate dallo sguardo perennemente smarrito ma mai dubitativo di Van Sant.
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La foresta dei sogni, questa storia di uomini sperduti nel bosco della loro esistenza, ha ambizioni enormi: vorrebbe raccontare l’impossibilità a comprendere il lutto, il senso della vita, la lotta quotidiana contro l’ineluttabile, la perfetta armonia dell’universo. Temi che Van Sant, da sempre ben più a suo agio nello scandaglio dell’umana (in)consistenza, tratta con mano svogliata, e con una superficialità che sorprende. Bignami sull’esistenzialismo, La foresta dei sogni crolla definitivamente quando deve fare i conti con il melodramma sentimentale. La memoria della storia d’amore (tutt’altro che pacificata) con la moglie interpretata da Naomi Watts, rasenta il grado zero del genere: non c’è nulla che provi a scavare più in fondo dell’apparenza, non si avverte mai la necessità di problematizzare ciò che si sta raccontando e lo sguardo con il quale lo si approccia.
La superficie liscia delle cose che ammantava di un candore asettico l’entomologia adolescenziale di Elephant (ma anche l’inutilità della riottosità giovanile in Gerry, Last Days e Paranoid Park), staccandosi e gestendo la materia dalla giusta distanza, diventa ne La foresta dei sogni un vacuo languore esistenziale, propensione alla nostalgia che non ottiene mai realmente la gratificazione della memoria, e dell’atto del “ricordare”.
Al di là di un meccanismo narrativo a tratti così forzato da lambire i confini del ridicolo involontario, è l’assenza di uno sguardo emotivo e pragmatico allo stesso tempo a scandire i ritmi del film, e a certificare l’insalubre stato di salute del cinema di Van Sant. Tutto è collegato, come se lo spago con cui si segna il percorso per non perdersi nella foresta di Aokigahara fosse stato utilizzato anche in fase di sceneggiatura, per far sì che ogni singolo dettaglio tornasse utile allo spettatore. Non c’è mistero, e dove non c’è mistero non c’è reale vita. O morte.
[Grazie, Quinlan!]
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