Captain America Civil War_immagine internaÈ un’opera collettiva, Captain America: Civil War, film che inaugura la fase tre dell’universo Marvel: un nuovo tassello che conferma tanto il gigantismo quanto i limiti narrativi dei più recenti prodotti dello studio americano.

Un anno dopo lo scontro con Ultron, un grave incidente internazionale coinvolge gli Avengers, spingendo le Nazioni Unite a chiedere una rigida regolamentazione delle attività superumane. Proprio quando, a Vienna, Tony Stark sta per porre la sua firma sull’accordo, un attentato terroristico squassa il palazzo dell’ONU, uccidendo il re del Wakanda, T’Chaka: l’autore dell’attentato sembra essere Bucky Barnes, il Soldato d’Inverno. Il Marvel Cinematic Universe cresce, si espande, ma contemporaneamente si precisa in un universo mediale sempre più integrato. Inaugurata, con questo Captain America: Civil War, la sua cosiddetta fase tre, il media franchise della Marvel si conferma come progetto più che mai ambizioso, teso a portare a compimento quel moderno concetto di serialità che (mutuato in gran parte dal piccolo schermo) coinvolge ormai l’industria dell’audiovisivo nel suo complesso.

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Ciò accade in un film che, anche laddove si presenta come terzo episodio del franchise dedicato al capitano Steve Rogers, è a tutti gli effetti, in realtà, un’opera collettiva. Difficile non pensare al recente Batman V Superman: Dawn of Justice di Zack Snyder, alle premesse in parte simili dei due prodotti (anche a livello narrativo) e a quella rivalità storica tra i due colossi fumettistici statunitensi che si sposta ora sul grande schermo. Dopo la visione del film di Anthony e Joe Russo, tuttavia, in tutti i suoi limiti narrativi e con i suoi pur presenti problemi di compattezza, lo studio capitanato da Kevin Feige conferma una progettualità, e una capacità di integrazione e sintesi nei suoi prodotti, che nelle opere DC/Warner è ancora tutta da dimostrare. E che il pubblico sembra, nello specifico, continuare a premiare.

La base di partenza del film dei fratelli Russo è il fumetto Civil War di Mark Millar, miniserie incentrata sulla divisione e lo scontro interno tra i membri degli Avengers. Al di là della portata inevitabilmente più ridotta del suo universo, il film sfuma alcuni dei concetti dell’opera di Millar, ne adatta le logiche al contesto abitato dai suoi personaggi, ma soprattutto ne modifica le premesse politiche. Laddove, infatti, la Civil War a fumetti (apparsa nelle edicole nel 2006) era figlia dell’11 settembre, delle guerre in Afghanistan e Iraq, di una precisa fase e visione della storia americana, la sua versione cinematografica sembra avere un respiro più ampio, ma concettualmente meno ambizioso. Declinato su un palcoscenico internazionale (sono le Nazioni Unite, e non il governo statunitense, a chiedere il regolamento delle attività superumane) l’intreccio del film dei Russo rinuncia ai rimandi alla storia e all’attualità, sfuma la visione romantica di un combattente destinato alla sconfitta (il Cap interpretato da Chris Evans), restringe e precisa il suo dramma a una storia di lealtà e amicizia da riconquistare: quella dello stesso Steve Rogers col Soldato d’Inverno Bucky Barnes, qui di nuovo col volto di Sebastian Stan. Un cambio di visuale che dà all’opera un diverso sapore, ma che ne rafforza il legame con gli altri tasselli del suo universo.

Scarlett Johansson is Black Widow

La prima parte di questo Captain America: Civil War cerca in realtà di mantenere un filo conduttore soprattutto col precedente film dedicato al personaggio di Steve Rogers: di quest’ultimo, infatti, vengono ripresi i toni e la messa in scena da thriller spionistico, la declinazione delle gesta dei personaggi su un piano il più possibile realistico, oltre al recupero della figura dello stesso Soldato d’Inverno. Si nota, da un punto di vista narrativo e di atmosfere, uno stacco fin troppo netto tra il segmento iniziale, che reintroduce il personaggio di Bucky Barnes e ne fa motore drammaturgico per la divisione tra Rogers e Tony Stark, e la fase seguente, dal carattere più collettivo: introdotta idealmente, quest’ultima, dalla già discussa entrata in scena dello Spider-Man interpretato da Tom Holland. Proprio l’annunciata apparizione di un Peter Parker (molto) adolescente, dall’insistito eloquio (nonché di un’inedita, avvenente versione di May Parker col volto di Marisa Tomei) si rivela come uno degli elementi più interessanti e potenzialmente forieri di sviluppi per i prossimi installment dell’universo Marvel. La cesura segnata dal personaggio di Holland, tuttavia (e soprattutto dal successivo, lungo scontro tra le due fazioni) trasforma il film in modo abbastanza brusco. Rendendone più esplicita la natura collettiva, ma evidenziandone anche più di un limite.

A loro agio con la declinazione delle gesta superumane su un piano terreno, interno agli ingranaggi di un potere invisibile e pervasivo (il precedente Captain America: Winter Soldier restava una solida pellicola di spionaggio, mascherata da film di supereroi) i fratelli Russo non mostrano la capacità autoironica e la leggerezza di tocco necessarie, per gestire quella componente smitizzante che è da sempre parte integrante delle opere Marvel. Il loro film, quando acquista in modo più definito i tratti di un crossover, perde mordente e incisività, si profonde in un’ironia decontestualizzata, normalizza e dilata oltremodo le sequenze d’azione (prima tra tutte, quella centrale dello scontro collettivo). In difficoltà con la costruzione di un efficace climax, ma anche costretti dal formato ad elementi poco integrati nel tessuto della trama (l’apparizione del personaggio di Ant-Man) i due registi perdono di vista i personaggi e le loro motivazioni, “privatizzando” lo scontro tra le figure di Rogers e Stark, ma limitandone anche il potenziale epico. Risultato di una sceneggiatura più episodica e disunita del solito, che recupera terreno soltanto quando si avvia (con il confronto finale) verso la quadratura del cerchio. Sempre, com’è ormai d’uopo nel genere, in funzione dei prossimi episodi del franchise, e con lo sguardo direttamente rivolto ad essi.

Captain America Civil War_poster

Va detto che un’operazione come quella di Captain America: Civil War, vista come tassello di un media franchise ormai giunto alla sua piena maturità, esprime comunque una sua intrinseca forza: quella dell’ulteriore espansione, e della continua, instabile ridefinizione, dei tratti di un universo cinematografico dal fascino pari soltanto alla sua ambizione. Come per il precedente Avengers: Age of Ultron, tuttavia (che aveva però dalla sua la capacità autoironica di un regista come Joss Whedon) si finisce per essere presi all’amo da tanta carne al fuoco, ammaliati dalla sua intermittente traduzione in immagini, per poi uscirne con un retrogusto inevitabilmente amaro: dato il materiale a disposizione, la portata dei temi di partenza, e le suggestioni disseminate nella sceneggiatura (non esclusivamente rivolte agli appassionati del genere) la scarsa coesione del tutto diviene ancora più evidente. Pare che la tendenza alla strizzata d’occhio allo spettatore, ai rimandi/anticipazioni agli altri film del franchise, al richiamo continuo a una serialità sempre più forte, stia facendo perdere di vista la necessità di coerenza interna e di compiuto sviluppo narrativo nel singolo film. Un problema che gli sceneggiatori dei prossimi film Marvel dovranno, a nostro avviso, tenere ben presente.

Non è un caso, probabilmente, che il più riuscito tra i prodotti più recenti del Marvel Cinematic Universe resti a parere di chi scrive l’autoironico Guardiani della galassia: un’operazione felice in quanto capace di portare fino in fondo la “filosofia” Marvel (così come si è delineata sul grande schermo), e di svilupparla al meglio all’interno dei suoi (pur espandibili) confini. Un risultato a cui sarebbe il caso di guardare attentamente per i prossimi, comunque attesi, tasselli del progetto dello studio americano.

[Thank you, Quinlan!]

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