Il cassinese Emilio D’Alessandro, autista e factotum di Stanley Kubrick, viene intervistato dal regista Alex Infascelli in S is for Stanley. Quello che ne risulta è il racconto di un rapporto, lavorativo e di amicizia, articolato attraverso trent’anni di vita (e quattro film), capace di avvicinare due persone apparentemente agli antipodi.
Due uomini, il cinema e la memoria.
Con S Is For Stanley, Alex Infascelli dirige quello che è probabilmente il suo miglior film, raccontando, con gli strumenti del cinema del reale, un rapporto lavorativo e umano pressoché unico.
Dopo dieci anni di silenzio sul grande schermo, durante i quali il regista romano si è diviso tra tv e videoclip, Alex Infascelli torna con quello che è probabilmente il suo miglior film. S Is for Stanley, già presentato con successo alla scorsa edizione della Festa del Cinema di Roma, fresco del David di Donatello per il miglior documentario, è un prodotto atipico per la filmografia di Infascelli. Atipico non soltanto perché per la prima volta il regista romano si dedica al cinema del reale, andando a scandagliare una vicenda apparentemente lontana dalle sue corde; ma anche perché il suo approccio ai temi trattati dal film è qui insolitamente intimo, centrato sulla ricostruzione di un’amicizia vera quanto totalizzante, che è racconto umano prima che cinefilo. Bandendo la tendenza al sovraccarico visivo (quello che aveva appesantito un’opera come Almost Blue), Infascelli fornisce un resoconto insieme rigoroso e vibrante, non privo di squilibri ma informato da uno sguardo limpido e capace di genuina meraviglia: quello di una vita che viene letteralmente sconvolta, ridefinita nelle sue basi, dall’incontro con un mito. Mito che, nelle sue espressioni, si fa gradualmente sempre più umano.
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In quello che sceglie di essere il racconto dell’uomo Emilio D’Alessandro, con la figura di Kubrick sempre presente nelle vesti di un (concretissimo) fantasma della memoria, l’approccio adottato da Infascelli è essenziale e privo di fronzoli: una lunga intervista frontale allo stesso D’Alessandro, inframezzata da materiale fotografico e dettagli sulle tante lettere e note che il regista scriveva al suo factotum, e da spezzoni della quotidianità dell’autista di Cassino. Nella sua estrema semplicità di approccio, nel suo costante rifiuto della sovrastruttura, dell’esibizione delle marche autoriali, di uno sfoggio di cinefilia che avrebbe appesantito la resa dell’opera, S Is For Stanley riesce a rendere i caratteri di un incontro/scontro che lentamente si fa vicinanza, assimilazione reciproca, amicizia e problematica empatia. In tutto questo, se da un lato vediamo emergere il lato intimo, più fragile e meno illuminato dalle cronache, del grande regista americano, dall’altro ne rileviamo (ancora una volta) i tratti ossessivi e tirannizzanti, che finiscono per informare di sé anche il privato del personaggio. Difficile non uscire dalla visione con sentimenti ambivalenti (attentamente ricercati dal film) verso una personalità debordante, capace di slanci empatici quanto di pretese ai limiti del capriccio; difficile non rilevare i danni (principalmente agli affetti) subiti in un trentennio di collaborazione dall’autista cassinese.
In tutto questo, il cinema (come lo stesso regista) è figura più evocata che concreta, presenza/assenza che stende la sua ala su ogni aspetto del rapporto professionale e umano tra i due uomini, così come sul privato dello stesso D’Alessandro. Solo evocato nel suo risultato finale (le immagini proiettate), ricordato da foto di scena e location (la villa del finale di Eyes Wide Shut) il medium-cinema diventa presenza materiale negli oggetti che compongono l’atto creativo, nello sguardo insistito sugli elementi scenografici e le attrezzature di scena, nella celebrazione di una manualità (e di una ferrea dedizione al lavoro) che è parte integrante del fare cinema. Componenti perfettamente incarnate dalla figura di D’Alessandro, del cui lavoro meticoloso, attento e informato da un’etica di altri tempi (apparentemente aliena nel rutilante mondo della Settima Arte), il film è intima celebrazione.
Animato da una disarmante sincerità d’intenti, capace di raccontare un rapporto unico e peculiare evitando di metterne tra parentesi le spigolosità, S Is for Stanley rischia a più riprese di soffocare il racconto sotto un sempre più marcato elemento emozionale, favorito dall’evidente affiorare della commozione, a più riprese, sul volto del suo protagonista. La lunga ed esplicita parentesi conclusiva è, probabilmente, la parte del film che più dà corpo a questo rischio. Ma, a controbilanciare questo elemento, giunge presto la sequenza dei titoli di coda ambientata nel garage di D’Alessandro: luogo di memorie personali, cinematografiche e affettive più che mai concrete, più esplicite nella loro valenza emotiva di qualsiasi espressione verbale.
[Thank you, Quinlan!]
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