Incipit intriso di malinconia: il vento soffia su una pianura del nostro Sud, spostando nuvole basse che svelano un’alba color rosso cupo. Una vecchia Panda parcheggia nell’area di servizio; ne scendono il gestore e la moglie, una figura distante, che vediamo accasciarsi all’improvviso mentre lui corre in soccorso. Il quadro successivo si apre su una bara portata a spalla lungo le vie del paese: il vedovo ha la faccia scolpita nel legno di un Ivano Marescotti che sembra portare le stimmate dolenti di un patriarca di mille anni.
Giuseppe – non ne è noto il cognome – decide di non chiudere e di portare avanti l’attività. Per sé, per la moglie defunta e per i due figli di cui non può andare granché fiero, l’insulso Nicola (che almeno fa il fornaio ed ha una bella famigliola) e il tossico Luigi, un balordo senza speranza.
Dopo un po’ di quell’esistenza dura e triste, Giuseppe si risolve a cercare un aiuto per il bar, e promuove una buffa selezione del personale, con un corteo di falliti che si presentano per il posto.
Sceglie una famiglia di rifugiati africani, composta da una coppia e da Bikira, la nipote diciottenne da loro adottata dopo la scomparsa dei genitori: sarà lei ad assumere un ruolo via via sempre più preponderante nella gestione del bar, e in quella della vita di Giuseppe.
Così, i due finiscono per sposarsi: per lui, questo è il solo modo per poter continuare a vedere questa ragazza bella e strana (i genitori adottivi sono preoccupati e feriti da quella frequentazione sconveniente) e per poterla proteggere dai pericoli di una provincia ottusa, brutale, razzista.
Tra il frastuono degli autotreni che corrono sulla statale e l’insegna arrugginita del bar che cigola scossa dal vento, il regista Giulio Base mette in scena una sorta di Vangelo apocrifo, sullo sfondo del grande dramma della nostra epoca, quella dei migranti in fuga da terre devastate dalla violenza e dall’avidità.
Le buone intenzioni di Base – soggetto, sceneggiatura e regia: forse un carico eccessivo per un autore solo – non sono però supportate da un adeguato allestimento cinematografico: il ritmo è fiacco, la recitazione di troppi attori debole, la struttura narrativa appesantita da quadri superflui.
Resta comunque un’opera coraggiosa, che affronta con grande umanità il tema dell’integrazione sociale e culturale nel nostro Paese e rilegge con creatività una delle più antiche storie d’amore.