Opera asimmetrica rispetto alla maggior parte dei film a episodi, Vrba (“salice” in macedone) segna il ritorno – dopo una fugace incursione nel western con Dust – di Milcho Manchevski, autore del celebratissimo Prima della pioggia. Sono infatti tre diverse storie, le cui protagoniste sono “tre insolite eroine”, come da sinossi ufficiale, ma una si svolge nel Medioevo e le altre due ai giorni nostri, e sono strettamente interconnesse: raccontano infatti di due sorelle talmente vicine tra loro da condividere tutto: lo smalto sulle unghie, l’accendino (messo in un cestino e fatto calare da un balcone all’altro dei rispettivi appartamenti), ma soprattutto una maternità sofferta, quasi negata dalle circostanze della vita.
La prima vicenda, invece, è quella di Donka, una giovanissima contadina, che combatte la sua personale battaglia per strappare ciò che può ad un’esistenza dura e oscura. Lei e il marito non riescono ad avere figli malgrado abbiano compiuto tutti i rituali propiziatori richiesti dalla tradizione rurale: ricoprirsi di fango quando tuona prima del temporale, ingoiare i primi tre chicchi della grandine caduta … Si rivolgono allora ad un’indurita anziana del villaggio, che è in possesso di arti divinatorie. La baba accetta di posare sulla giovane ma infertile coppia la sua benedizione, ma ad un prezzo altissimo, che i due – una volta che Donka ha finalmente dato alla luce un bel bimbo, tra le spighe dorate del campo di grano nel quale lavorano insieme – non vorranno pagare. Salvo però scontare, poi, la maledizione della vecchia, con la complicità del salice sotto le cui fronde si dipana la tragedia.
Rodna vive con la famiglia d’origine in un anonimo palazzo di Skopje. Assiste all’investimento di un pedone da parte di un tassista grosso e barbuto, durante la finale degli ultimi Mondiali di calcio, e al suo comportamento insolito, che resta sotto il diluvio ad aspettare che arrivi la polizia per gli accertamenti del caso. Colpita dalla dedizione dell’uomo, se ne innamora e, più tardi, lo sposa. I figli, però, non arrivano. La coppia le tenta tutte, anche la fecondazione in vitro, ma non c’è nulla da fare. Disperata, Rodna chiede alla sorella, Katerina, cosa deve ancora sopportare oltre a doversi arrabattare con spettacolini di strada per campare: forse deve ricoprirsi di fango quando tuona prima del temporale? O ingoiare i primi tre chicchi della grandine caduta?
Dal canto suo, Katerina – ed è la terza ed ultima parte del dolente trittico di Manchevski – è alle prese con il medesimo dilemma, che sembra aver risolto adottando Kire. Il quale però non parla, immerso com’è nel suo mondo misterioso. Solo la forza dell’amore e della vitale amicizia con un piccolo zingaro, al quale lo accomuna un’irrimediabile diversità rispetto alla società “normale”, avranno il potere di sciogliere il maleficio di un’infanzia condannata all’infelicità.
Le tre vicende sono magistralmente collegate tra loro dal simbolo del salice, i cui rami sono capaci di sostenere i pesi più gravosi senza spezzarsi: allo stesso modo, pur dovendo vivere in mezzo a dolore, tristezza e pianto, queste donne coraggiose sono comunque in grado di andare avanti e di amare.
La scelta del regista di premettere ai due episodi ambientati nell’età contemporanea quello che ricostruisce una Macedonia medievale, non è dettata da un mero ordine storiografico, ma contiene un’amara ironia. Manchevski sembra dirci che, in fondo, nulla è cambiato da quell’epoca buia: l’umanità si trova sempre a fare i conti con la sofferenza del vivere e del lottare contro un fato avverso.