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Siamo di fronte ad un prodotto pregevole ed eticamente necessario. Un documentario da vedere e far vedere. A dispetto, infatti, di tutte le prove, di tutte quelle fondate riflessioni che insinuerebbero in noi il sospetto del contrario, l’Italia appartiene ancora al G8 (come dimenticare i sanguinosi fatti di Genova?) e Roma ne è la capitale.

Ecco perché mai titolo fu più azzeccato di quello scelto dal talentoso Ascanio Celestini per la sua prima prova cinematografica. È lo stesso autore a rivelarcene il significato attraverso quest’emblematica descrizione: “Cinecittà è un pezzo di Roma a ridosso del Grande Raccordo Anulare. Accanto a uno dei primi centri commerciali della capitale, quattromila lavoratori precari attraversano ventiquattro ore al giorno il portone di un’anonima palazzina, una fabbrica di occupazione a tempo determinato che sembra un condominio qualunque. Tra loro alcuni operatori telefonici hanno organizzato scioperi, manifestazioni, scritto un giornale e presentato un esposto all’Ufficio Provinciale del Lavoro. Si sono autorganizzati, hanno rischiato e sono stati licenziati. Qualcuno poteva salvarsi e accettare un lavoro pagato 550 euro al mese, ma “noi non siamo mica il Titanic – mi dicono – non affonderemo cantando”. Parole sante! Rispondo io”.

Purtroppo e, da romano quale sono, è davvero dura doverlo ammettere, non ci troviamo di fronte ad una produzione di Bollywood. Lo scenario non è quello di una sterminata provincia indiana, tristemente nota per la delocalizzazione dei call center, di qualche multinazionale europea o americana. Siamo a CINECITTA’! Esatto. Proprio la stessa degli stabilimenti ove si è fatta la storia del cinema. Eppure, questa volta, il neorealismo impallidisce di fronte a ciò che Ascanio ci mostra, grazie al suo approfondito lavoro di reportage ed al supporto di coloro che hanno pagato in prima persona il diritto allo sciopero sancito dalla Costituzione Italiana.

Ragazzi e ragazze che si sposano, vanno a vivere insieme, si ammalano di superlavoro e, come ricompensa, vengono licenziati. “Carne da call center” li chiamerei io, parafrasando il triste utilizzo dei fanti nella guerra di trincea. Oggi, il conflitto, è tra chi – già ricco – vuole diventarlo ancora di più e chi, semplicemente, vorrebbe scrollarsi di dosso le patetiche etichette che qualche politico miope ed ipocrita tende ad incollargli sulla schiena almeno un paio di volte l’anno. Ironia, sarcasmo, puntuale citazione di date e numeri.

Mi sembra giusto concludere con questa riflessione dell’autore e regista: “L’istituzione sindacale, non i singoli sindacalisti, si muove troppo lentamente rispetto a un mercato del lavoro in repentina evoluzione: se pensano di tutelare i lavoratori con due lire in più in busta paga, prepensionamenti e cassa integrazione, sbagliano di grosso. Mi spaventa di più l’immobilismo e l’impotenza di governo e sindacati che non le leggi Biagi e Treu”. […] “Bisogna riformare il mercato, partendo dal basso, dal quotidiano: serve una nuova coscienza civile e politica, rifiutarsi tutti insieme di sottoscrivere contratti capestro, di accettare 10 euro per una giornata in cantiere, come fanno tanti extra-comunitari, o 8 euro per un articolo, come succede a tanti giornalisti”.

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