Catartico e romantico, vero e spaventoso, tragico e attuale: ecco cos’è Un uomo qualunque. Frank Cappello disegna un film diviso in due, in cui l’esordio e la conclusione racchiudono, attraverso il profondo realismo della loro tragedia, uno svolgimento centrale quasi anomalo, inatteso, fondato sui sentimenti ma non per questo avulso dal contenuto centrale della narrazione.
Coniugazione in chiave romantica e solitaria del paradigma alla American Beauty (tante e forse troppe sono le analogie col capolavoro di Mendes), Un uomo qualunque ci porta nel cuore, anzi nella mente, della vita del classico impiegato timido e frustrato: un uomo (Christian Slater) vessato dall’ignoranza e dall’arroganza dei superiori, solo, senza affetti e costretto a vivere una vita di riflesso, fatta di pensieri e di fantasie. Ridotto a parlare col pesce rosso, a sognare di distruggere con un pulsante l’intero edificio della sua azienda e soprattutto sempre sull’orlo di compiere una strage per mezzo della sua pistola, si ritroverà invece a essere spettatore dell’analogo gesto di un suo altrettanto esasperato collega. Troverà però il coraggio di reagire e di uccidere l’altro “uomo qualunque” che gli ha “rubato l’idea”, finendo così per divenire una sorta di eroe dell’ufficio, con tanto di innalzamento di grado. Con l’occasione, familiarizzerà con una ragazza (Elisha Cuthbert) che a seguito della strage è rimasta paralizzata. Ma nemmeno l’amore può scacciare i demoni del passato.
La rabbia e la sana catarsi che la storia del protagonista suscitano nella parte iniziale vengono inaspettatamente e quasi ingiustamente edulcorate dallo spirito romantico e a tratti riconciliatorio del resto del film. Ma è solo la quiete prima della tempesta. L’uomo qualunque cerca solo affetto, amore, comprensione in chi lo circonda: e scoprirà che la vicinanza di una donna può dare tutto questo. Ma è impossibile seppellire tutto in un colpo le ansie generate negli anni dalla vita in un posto di lavoro alienante e da colleghi arrivisti come caimani. Le frustrazioni vengono presto a galla e daranno nuovamente il là al riemergere dello squilibrio mentale. Ma quello davvero squilibrato è proprio il protagonista? Attenzione alla risposta: American Beauty docet.
Frank Cappello dirige con mano pulita e sobria i movimenti di un Christian Slater eccellente, che nell’espressione di uno sguardo sintetizza tutto l’esaurimento nervoso e l’alienazione di un intero mondo di uomini qualunque. Gli fanno da degne spalle William H. Macy, il classico attore che avremmo potuto tranquillamente vedere al posto del protagonista, nonché una Elisha Cuthbert che per una volta mette da parte la bellezza fisica per recitare dal collo in su come si deve (il suo personaggio è infatti paralizzato nel resto del corpo).
Se per buona parte dell’opera si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un’occasione sprecata per realizzare un buon film, il finale sopraggiunge quasi a sorpresa per svelare tutto il senso di quell’ora di romanticismo e buoni sentimenti: il dramma finale rivela la tragedia nascosta, regala la relativa (seppur triste) catarsi e consegna allo spettatore un film potente e accusatorio, tremendamente attuale e denso di significato.
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