Sempre in bilico tra la voglia di regia e una più che discreta carriera d’attore, anche stavolta Sergio Rubini sceglie di stare nel mezzo, di dirigere e recitare. Il risultato è il classico film italiano di buon livello: ben fatto, non privo di qualche sbavatura, ma incapace di convincere fino in fondo, in questo caso soprattutto dal punto di vista narrativo, per via di una sceneggiatura macchinosa fino all’inverosimile, cui risulta difficile dare credito ad oltranza.
Rubini sceglie il mondo dorato, cinico, arrivista e senza scrupoli dell’arte per dar vita ad un drammatico mascherato da thriller che, come nella tradizione dei thriller all’italiana, basa tutto sull’analisi di personaggi complessi, misteriosi, che nascondono sempre una parte di se stessi fino all’ultima scena. A farla da padrone qui è un critico d’arte di fama internazionale, interpretato da Rubini stesso: è lui il vero protagonista, sia per importanza narrativa che per presenza scenica, a dispetto di locandine e pubblicità cubitali che mettono in mostra il solo nome di Riccardo Scamarcio (ma è il marketing, bellezza, e non puoi farci niente! – potremmo dire per parafrasare altri…). Al giovane e sempre piacente attore romano spetta invece il ruolo di uno scultore in ascesa, che prima ruba la donna (Vittoria Puccini) al critico d’arte e poi finisce nella sua sfera di influenza. Portato all’apice, non saprà accettare di essere solo un pupazzo nelle mani del grande burattinaio e finirà di nuovo nell’oblio. Ma sarà solo l’inizio del grande dramma…
Al personaggio interpretato da Rubini spetta il compito di tessere una trama arzigogolata, misteriosa, macchinosa, precisa nei dettagli, diabolica e cinica, spietata e fredda come la vendetta. Ma se per grossa parte del film il marchingegno regge, il finale ne svela le fragili fondamenta: troppo dettagliato, troppo machiavellico, perché le mille sfumature dell’animo umano, le mille variabili imponderabili della vita non possano cambiare un dettaglio e far cadere un castello così delicato.
Se si stenta a credere al finale, analogo sforzo occorre prestarlo nella fase iniziale, sceneggiata come peggio non si potrebbe, persino mal recitata, quasi fastidiosa. Ma dura poco. Poi tutti sembrano rientrare nei ranghi, la sceneggiatura riacquista un invidiabile equilibrio e gli attori si mettono in bella mostra: non stupisce la classe di Rubini, attore di razza, calato alla perfezione nel personaggio (una prova che vale il prezzo del biglietto); meraviglia invece l’interpretazione convincente di Scamarcio, che tuttavia dimostra i suoi limiti recitativi proprio nei momenti più delicati, quelli in cui dovrebbe uscire fuori dai canoni del personaggio. Più anonima purtroppo la prova della Puccini, troppo stretta fra i due uomini, quasi sacrificata per ragioni di scena.
Se a tutto ciò si aggiungono le musiche decisamente azzeccate di Pino Donaggio e una serie di equilibri narrativi ben orchestrati per poco meno di due ore, si ha un film tutto sommato soddisfacente. La durata risulta invero eccessiva, ma lo si avverte solo nel finale. Colpo d’occhio rimane un’opera comunque apprezzabile e lodevole rispetto alla media nazionale. Meritevole.
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