Fame

Le persone dimenticano spesso che l’espressione “tratto da” non è esattamente uguale a “remake di”. Ed il nuovo Fame, che nel suo caso non fa eccezione, andrebbe in effetti (s)valutato con un occhio di riguardo proprio perché non facente parte della seconda categoria. L’oramai cosiddetta next generation di Saranno famosi, dopotutto, non ha mai preteso d’esser un fedele rifacimento di quel bellissimo film vincitore agli Oscar del 1980, scritto da Christopher Gore e diretto da Alan Parker, piuttosto di riferirsi allo stesso in qualità di revival, riproposta in chiave moderna del successo nato dalla pellicola originale e dal telefilm del 1982 che, con gran puntualità, ne seguì per primo le orme.

Ambizione, successo, fama e soprattutto sudore, come recitava la signorina Lydia Grant nell’omonimo lungometraggio di quasi trent’anni fa, sono qui riaffrontati con la medesima passione ed energia, seppur con una nota di rimando, quantomeno a livello coreografico, a quella recente e sfrenata mania per il remix delle canzoni più di tendenza.

Questo perché il novello Fame, come del resto si sarebbe dovuto prevedere, fa di tutto un po’: ripropone coraggiosamente il brano principale di Michael Gore e Dean Pitchford assieme ad altri classici a tema, e al contempo riadatta e perfeziona (laddove per perfezionare s’intende un accomodamento alle attuali preferenze musicali dei giovani) il contesto melodico di contorno (audizioni, prove…), inserendovi pezzi tutti nuovi ed appositamente scritti per il film.

Commedianti, compositori, cantanti, sceneggiatori, sassofonisti, ballerini di tip-tap ed artisti d’ogni genere non sono solamente dei gran talenti nella vita come sullo schermo, ma persino degli attori niente male, che promettono singole interpretazioni anche migliori di quest’ultima (ed un buon ritorno di notorietà – fama, se vogliamo – in ambedue i campi artistici intrapresi, nonostante la poca esperienza). E, alla maniera dei loro predecessori, sono la materia prima di pressoché un’ora e tre quarti di spettacolo, durante i quali fanno fronte ai celebri quattro anni di School of Performing Arts (naturalmente tutti frettolosamente “impacchettati” in poco meno di mezz’ora l’uno), l’accademia d’arte newyorchese per eccellenza: rabbia, primi amori, piccoli fallimenti quotidiani e/o (inter)personali sono gli elementi chiave di una sceneggiatura già sperimentata e ri-sperimentata, in passato come di recente (già in sala, d’altronde, il film Bandslam, ennesimo musical interpretato dalla Vanessa Hudgens della serie High School Musical).

Certo è vero che gli affezionati troveranno numerose pecche in una sceneggiatura priva di quella sua originalità iniziale, dettata in parte dall’effetto “prima volta” di tutto: riascoltare a distanza di ventinove anni le note frasi d’incoraggiamento quali «credi in te stesso» risulta a tratti estenuante, ma è pur giusto ammettere che il mondo del palcoscenico è un universo difficile da attraversare per la milionesima volta, almeno senza dover fare i conti con le solite insipidezze autoreferenziali. E poi, a rendere ancor più difficile l’oneroso compito di dare un equo giudizio alla pellicola, vi sarebbe quel tocco un po’ anacronistico che sembra esser onnipresente nelle storie individuali dei ragazzi protagonisti: genitori (siamo nel terzo millennio, per di più in America!) che non vogliono sentir cantare sfarzose canzoni hip hop dai loro figli, che pretendono che questi studino qualcosa di più serio o, preferibilmente, si trovino un lavoro in grado di portare avanti la famiglia. Le solite divergenze d’opinione, insomma, che potevano benissimo starvi nel telefilm degli anni ottanta ma che qui, in tale contesto ed in tale decennio, non fanno altro che stonare con i ritmi sostenuti della musica e del reparto danzatori.

Pur tuttavia, pongono rimedio alla pochezza di trama quei personaggi apparentemente intravisti di sfuggita e che, ciononostante e senz’alcun dubbio, eccellono su tutti e risultano sensatamente di pari passo con i modelli della società odierna: dalla ragazza silenziosa, vanesia e sicura del proprio talento, all’arrogante dee-jay che preferisce comporre la sua musica anziché studiare Bach o Mozart. Aggiungiamoci una Megan Mullally (la Karen di Will & Grace) mai vista (o meglio sentita) – nel ruolo di vicepreside della scuola, l’esordiente regia di un ballerino e coreografo di nome Kevin Tancharoen, ed il gioco è fatto: meritevolmente conquistata la nuova generazione di spettatori e stordita la vecchia, grazie ad un sound chiassoso ed improponibile per chi è abituato a tutt’altra musica (un po’ in tutti i sensi). L’importante è non dimenticare mai che il mondo non si ferma ed è in continua evoluzione: del cinema, peraltro, meglio non parlarne.

[Nota del Caporedattore: Megan Mullally è, in realtà, molto più nota come cantante di musical che come protagonista di programmi tv. Non a caso, è stata l’unica interprete cui è stato proposto di far parte del cast di Will&Grace senza provino ed è stata proprio lei, probabilmente per dissimulare – inconsciamente –  la sua notissima, splendida voce, ad inventarsi quel geniale gracidio ocheggiante che ha fatto di Karen un personaggio indimenticabile.

Altro interprete decisamente degno di nota e decisamente sottovalutato nel cast di questo nuovo e  banale Fame,  è il brillante Kelsey Grammer che ha fatto morire dalle risate due generazioni di telespettatori, per ben 263 episodi, nell’arco di ben 11 stagioni di…Frasier!]

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=fRPca0Lvp1w[/youtube]

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7Comments

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  1. 2
    Rise up

    Per me promette tanto bene, quando lo andrò a vedere non starò troppo dietro ai paragoni, sono passati trent’anni e le cose sono cambiate… Conta solo che sia un film emozionante e i numeri ci sono tutti.

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