Se da attore ci è sempre piaciuto per quel suo savoir faire da tipo navigato, come regista George Clooney è stato fin da subito un’inattesa rivelazione: lo ricordiamo nei convincenti Confessioni di una mente pericolosa e Good Night, and Good Luck, entrambi drammatici. Da buon regista di successo era già ora che si mettesse alla prova con un genere diverso, come quello della commedia. Con il riuscitissimo In amore niente regole dimostra così di essere non solo un grande attore, non solo un bravo regista, ma anche un direttore poliedrico e geniale.

Anche in questa prova, Clooney si cimenta contemporaneamente davanti e dietro la macchina da presa. Assieme alla spalla Renèe Zellweger, dà vita ad una coppia comica che per tutto il film intesse dialoghi divertentissimi, che per stile e cinismo ricordano tanto quelli alleniani de La maledizione dello scorpione di giada. Lui interpreta un discreto giocatore di football universitario dell’America anni Venti; lei una giornalista del Tribune. Lui possiede una squadra poco fortunata e decide di risollevarne le sorti, ingaggiando un grosso giocatore, noto eroe di guerra; lei è decisa a smascherare le bugie che ricoprono il fumoso passato del presunto eroe.

In un periodo in cui il football non poteva ancora dirsi uno sport, quanto piuttosto un passatempo dilettantistico fatto di risse in mezzo alla terra rossa, il personaggio interpretato da Clooney si dà al professionismo e attraversa il delicato periodo di transizione che portò all’introduzione delle prime regole che trasformarono lentamente quell’hobby in un vero sport.

Ed è proprio qui, in questo periodo storico-sociale-culturale agli albori del football, che il film di Clooney trova il terreno ideale per mettere in scena la sua sofisticata e divertentissima parodia, che non risparmia da una parte i film anni Venti-Trenta, dall’altra quel mondo di un football che fu. La pellicola è tutta un susseguirsi senza sosta di gag che scimmiottano le classiche situazioni da film muto d’epoca (trasformandole in pantomima irresistibile) e che prendono gustosamente in giro quel “giocare sporco” e senza regole che era alla base di uno sport ancora lungi dal farsi tale (non a caso il primo titolo del film era Playing Dirty, poi divenuto Leatherheads – stendiamo un velo pietoso sulla solita traduzione nostrana).

Clooney si trova perfettamente a suo agio nel ruolo del giocatore “vecchietto” e con la sua mimica rivela la solita autoironia che gli ha sempre procurato tanto successo fra le donne: diciamocelo in tutta onestà, con quel caschetto di pelle in testa è tanto buffo quanto irresistibile! Gli tiene testa un brava Zellweger, perfettamente a suo agio nel ruolo.
Insomma, Leatherheads è una commedia divertente, riuscita, persino sofisticata e a più livelli. Clooney dovrà di certo ringraziare la geniale sceneggiatura (firmata da Duncan Brantley e Rick Reilly), ma la sua arte e la sua poliedricità sono oramai conclamate, adesso che anche la prova-commedia è superata brillantemente.
Delizioso.

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