Esiste un luogo, tra le esplosioni delle bombe e i palazzi sventrati, in cui non v’è differenza tra bianchi e neri, tra locali ed immigrati, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne. Tutti sono uguali di fronte al dolore, tutti uguali di fronte al chirurgo che – spesso a lume di candela – lotta contro il tempo per salvargli la vita. Questo luogo che sembra davvero sospeso nel tempo e nello spazio si chiama, si chiamava Gaza Hospital.

Questo intenso e, per quanto il durissimo tema lo consenta, splendido documentario, è stato girato da Marco Pasquini (classe ’75 e notevole esperienza sul campo. Interessante la sua esperienza sul set con Ciprì e Maresco) che ne ha curato anche la fotografia e ne ha scritto la traccia insieme a Lillo Iacolino. Proiettato – in anteprima italiana (è stato presentato in anteprima mondiale al Dok Leipzig nel 2009) – il mese scorso a Roma, al Nuovo Cinema Aquila, nell’ambito del Tekfestival 2010, Gaza Hospital deve il nome proprio a questo luogo incredibile che è stato il secondo ospedale più importante del Libano e la più importante struttura sanitaria della Mezzaluna Rossa Palestinese in territorio libanese, uno dei principali luoghi di cura dei profughi palestinesi a Beirut, dei libanesi più poveri e degli immigrati dai vicini paesi arabi.

Per la sua collocazione urbanistica e per la particolare struttura architettonica, questo edificio è stato soggetto e testimone della drammatica storia di Sabra e Chatila, divenendo metafora della storia dei rifugiati palestinesi in Libano e forte simbolo della resistenza di questo popolo. Profondo labirinto di scale e corridoi, la Storia ha voluto che divenisse Casa per i rifugiati, per i sopravvissuti dei massivi bombardamenti. Stanze di degenza e corsie sono, quindi, divenute abitazioni e gli occupanti, sempre più numerosi, hanno dato vita ad una comunità unica nel suo genere. Tutto ciò viene svelato allo spettatore attraverso 84’ di riprese in Digital Beta che vedono protagoniste alcune figure emblematiche, le quali, per ragioni e mansioni radicalmente diverse, hanno contribuito a rendere il Gaza Hospital un luogo magico.

Si tratta di tre donne e un uomo: Youssef (palestinese rifugiatosi in Libano per poter sopravvivere. Ne hanno condiviso l’atroce destino più di quattrocentomila persone. E’ il barbiere tuttofare dell’ospedale, una figura che sembra uscita dalle pagine di un romanzo), Azida Khalidi (palestinese, amministratrice generale dell’ospedale nel 1982), Ellen Siegel (ebrea americana, infermiera volontaria durante l’invasione israeliana del Libano) e, dulcis in fundo, l’incredibile chirurgo ortopedico malese (di religione cristiana) Swee Chai, la cui forza d’animo è inversamente proporzionale alla statura: minuscola ed immensa allo stesso tempo.

La paladina dell’ospedale, il cui numero di vite salvate non si conta. Avrebbe potuto vivere una vita agiata a Londra, in “some fancy hospital” ma, dopo la sua prima visita, si è presa il “mal di Gaza” ed ha scelto di dedicare la sua esistenza a curare le vittime di guerra. Dopo aver vissuto numerose volte a Beirut (era lì anche durante la sanguinosa Guerra dei Campi che seguì all’orrendo massacro di Sabra, Chatila, Burj el Barajneh del 16-18 settembre 1982), prestando la sua opera di chirurgo ortopedico specializzato in chirurgia di guerra, ha fondato il M.A.P. (Medical Aid for Palestine), organizzazione medica internazionale che opera negli ospedali dei campi in Libano e nei Territori Occupati ed è autrice di un libro che ripercorre la sua esperienza in Libano. Incontrarla (come è accaduto al sottoscritto, dopo la proiezione romana del documentario), stringerle la mano, guardarla negli occhi, sapendo che cosa è stata in grado di fare, è un’esperienza unica.

Il barbuto barbiere factotum Youssef è i nostri occhi all’interno del Gaza Hospital. Lo vediamo infatti svolgere le mansioni più disparate e il cuore si stringe quando ci rivela il motivo per cui si è fatto crescere la barba ed ha iniziato la sua seconda vita, senza più guardare indietro, scegliendo di non ritornare mai più in patria. Una parte di noi, all’uscita dalla sala, percorrerà lo stesso cammino, ritornando senza più tornare.

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