Dopo l’inguardabile tirata occidentalista de Il mercante di pietre, il regista leghista torna a colpire sullo stesso tasto. Ovvio che, con un soggetto del genere alla regia e con certe ideologie alle spalle, il risultato sia tranquillamente associabile a quello del suo precedente lavoro. Carnera è il classico film sulla boxe che ti aspetti da Renzo Martinelli: grosso circo pomposo, realizzato con effetti speciali posticci e con una budget e una confezione da fiction di lusso. Ma soprattutto gonfio, anzi strabordante di retorica nazionalista e criptofascista.

Un film tanto retorico da dar fastidio, tanto ingenuo nella sua realizzazione, nella sceneggiatura, nei dialoghi, da sembrare il film per ragazzi della domenica pomeriggio. D’altronde, se si conosce anche minimamente il percorso recente della carriera di Martinelli, fatto di crociate anti-islamiche e di lezioni sulla necessità di riaffermare la cultura occidentale, non si può rimanere sorpresi. Tanto meno meraviglia il soggetto scelto: la storia del primo pugile italiano campione dei pesi massimi, un ragazzone di due metri venuto dalla provincia sperduta al confine (un paesino della Venezia Giulia), nato poco prima della Grande Guerra, cresciuto tra privazioni e amore per uno sport che poteva sollevarlo dalla polvere. Assurto al rango di grande campione, divenne lo strumento prediletto per il regime fascista, che ne esaltava le gesta in chiave nazionalista, al fine di risollevare il morale di un popolo che poc’altro aveva da sperare.

Girato in lingua inglese e ridoppiato orribilmente in italiano, il biopic segue la vita di Primo Carnera dall’infanzia fino all’abbandono dell’attività agonistica per dedicarsi alla famiglia. Tra donne sincere e manager senza scrupoli, vicissitudini sportive e guai finanziari da crisi del ’29, si compone il ritratto di un uomo fondamentalmente ignorante e violento, bonario solo esteriormente e che usava la minaccia della sua mole come argomento di discussione. Ma al regista leghista interessava di certo di più far emergere la virtù mai arrendevole dello sportivo che va al tappeto 10 volte nello stesso incontro e si rialza per altrettante volte: scontata e iper-retorica metafora del paese allo stremo, fatto di gente come Carnera, emigrati e poveracci, ma orgogliosi di essere italiani.

A tale scopo – e altrimenti chissà a quale altro, è dura a capirsi – l’utilizzo di una scena iniziale presa di peso dal finale di Rocky: ridicola e senza senso nel contesto di un tipo di film completamente diverso (sulla carta). Unico momento capace di emergere dal pantano del film, la scena dell’incontro terminato con la morte dell’avversario di Carnera: sequenza toccante e ben girata. Sulla scelta dell’esordiente Andrea Iaia per il ruolo principale, c’è poco da dire: è evidente come sia stato selezionato solo per il physique du role, lui ce la mette tutta, ma i limiti si vedono. Stendiamo invece un velo pietoso sulle interpretazioni femminili, a cominciare da quella di Anna Valle.

Insomma, se vi piacciono le fiction (la confezione è quella…), i film sulla boxe (di combattimenti ce ne sono a iosa e sono anche discreti) o la storia dei pugili che emergono dal nulla e conquistano il mondo, forse avete un motivo per sorbirvi la visione. Se invece semplicemente amate il cinema, cambiate sala.

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1 Comment

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  1. 1
    gio

    bellissimo film davvero
    finalmente un film su una storia vera
    davvero bello
    gli attori sono fantastici
    complimenti al registra….

    complimenti merita l’oscar

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