Si sta avviando a conclusione il Festival della Cultura Cambogiana (di cui è ancora in corso la mostra fotografica Il sorriso di Angkor, Palazzo Valentini, via IV Novembre 119A, dal lunedì al sabato), in corso dal 13 maggio fino all’11 Giugno ed inaugurato dalla presentazione de La carta non può avvolgere la brace, film e relativo libro del cineasta Rithy Panh.
L’interessantissima conferenza svoltasi nel Gran Salone di Villa Medici ha visto la partecipazione dello stesso autore-regista, dell’editore Maurizio Gatti (ObarraO), dell’economista Pietro Masina (Università Orientale di Napoli), di Tina Lepri (Giornale dell’Arte) e del giornalista Corrado Ruggeri (Corriere della Sera).
Quest’ultimo ha aperto la discussione citando la motivazione del premio conferito a Rithy Panh dall’European Film Academy nel 2007: “un documentario quasi brechtiano che dà voce ad una comunità solitamente muta”, che sa comunque dar prova di una commovente “solidarietà anche in una situazione di sfruttamento estremo”, mostrando un grande orgoglio e voglia di resistere.
Del resto, la Cambogia è nota tra gli addetti ai lavori per la capacità di alcuni settori sociali di lavorare a favore dei più derelitti, come dimostra l’esperienza di Somaly Mom, una ex prostituta che ha dato vita ad un’associazione di sostegno a chi cerca di uscire dal circuito della prostituzione – ne ha parlato in un suo libro anche Marco Scarpati, presidente della sezione italiana di ECPAT, meritoria organizzazione nata proprio nel sud-est asiatico per combattere lo sfruttamento sessuale dei minori ad opera dei turisti stranieri.
Secondo Tina Lepri, si tratta di un fenomeno estesissimo (ventimila sex tourists in Cambogia, addirittura 80.000 in Thailandia), dove operano bande organizzate che acquistano e vendono giovanissimi anche di 5-6 anni per immetterli nel mercato del sesso.
Di tutto ciò Rithy Panh disegna un affresco molto preciso, ricostruendo le storie delle famiglie d’origine che sono alla base di destini così terribili – secondo Da, una delle ragazze intervistate nel film, “è tutta la società che è prostituita”, una società andata in frantumi a causa del regime dei Khmer Rouges, da cui sono fuggiti in migliaia per ritrovarsi accalcati in disumani campi profughi al confine con la Thailandia: racconta Da che nei pressi di Aranyaprathet molte donne si sdraiavano all’aperto, in uno spazio delimitato da quattro paletti e fiocamente illuminato da una candela, e lì ricevevano i clienti… Pesantissime anche le responsabilità della missione inviata dalle Nazioni Unite per accompagnare il processo di democratizzazione seguito alla guerra civile (1992-1996): è accertato che i militari UNTAC hanno enormemente incentivato la prostituzione locale, disponendo di dollari con cui comprare le prestazioni a buonissimo mercato.
Tra le inevitabili conseguenze, un incremento spaventoso della percentuale di sieropositivi, che in Cambogia è la più elevata di tutta l’Asia.
Ad avviso di Pietro Masina, l’affrettato ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha aggravato le difficoltà economiche della maggioranza della popolazione cambogiana, malgrado una crescita sostenuta del PIL (intorno al 10% annuo, in testa i settori tessili e dell’abbigliamento, del turismo e del petrolio, recentemente scoperto al largo di Sihanoukville).Ciò fa di questo paese uno degli obiettivi preferiti dagli investitori esteri, con ricadute purtroppo scarsissime per la popolazione locale: pare che il 50% della terra sia di proprietà straniera, con l’esteso ricorso al metodo della requisizione forzata. Questa gravissima deprivazione delle risorse basilari (cui si aggiunge il continuo e sistematico saccheggio dei meravigliosi templi di Angkor Wat) fa sì che in Cambogia la popolazione collocata sotto la soglia della povertà sia rimasta sostanzialmente invariata (dal 34% al 30%), a fronte di esempi virtuosi come quello del Vietnam, dove la riduzione della povertà è stata drastica (dal 68% al 18%).
Ancora a proposito di percentuali, sono impressionanti quelle relative al grado di istruzione: solo il 4% dei giudici ha svolto studi giuridici, mentre appena il 14% degli insegnanti ha potuto completare i propri studi…
Inoltre, è falsa l’idea che il turismo contribuisca allo sviluppo del paese: spesso i grandi hotel non acquistano prodotti locali, ma li fanno arrivare da fuori; senza parlare dell’aumento generalizzato dei prezzi che il turismo induce e che abbatte il potere d’acquisto dei più poveri.
E finalmente la parola va a Rithy Panh: “Non dovrei fare questo tipo di film – se il mondo funzionasse come dovrebbe!” Ma così non è purtroppo, e allora la sua generazione (nato a Phnom Penh nel 1964, a undici anni viene separato dai genitori e chiuso in un campo di rieducazione, da cui riesce a fuggire 4 anni dopo rifugiandosi in Thailandia) ha sentito il dovere di lavorare sulla ricostruzione della memoria, per recuperare la dignità perduta: il genocidio allestito dalla cricca di Pol Pot ha distrutto non una sola, ma due o tre generazioni.
Quanto al film, e al libro, Rithy Panh racconta di essere riuscito a costruire un rapporto autentico con le protagoniste, che ha continuato a seguire anche dopo (una di queste ha smesso di “esercitare”, ma si è ammalata di AIDS): è stata una delle ragazze a fornirgli lo spunto per il titolo, descrivendo la vergogna che provano per ciò che sono costrette a fare, una vergogna che brucia nel loro corpo e che non riescono a nascondere del tutto.
Interessante il dialogo sorto a questo punto tra il regista e un esponente dell’ambasciata a Parigi (in Italia non c’è la rappresentanza diplomatica cambogiana), il quale ha osservato che non è poi così terribile vivere in Cambogia… Rithy ha replicato che ama il proprio paese, altrimenti non sarebbe tornato a lavorarci; è vero, ha ricevuto critiche aspre dai suoi compatrioti perché fa film troppo duri, che non danno una buona immagine del paese, ma questa è la realtà e ci vorranno ancora almeno un paio di generazioni perché possa cambiare.
Tornando al film, Rithy ha dato il permesso ad alcune ONG di utilizzarlo come strumento pedagogico, in linea con la missione che si è dato: a Phnom Penh ha fondato Bophana, un centro di ricerche audiovisive sulla storia attuale del popolo khmer, dove indagare la realtà interiore dei protagonisti dei suoi film; il centro è aperto a tutti, ma specialmente ai giovani artisti.
Solo Da, fino ad ora, ha visto La carta non può avvolgere la brace: lei, che è diventata una sorta di portavoce delle ragazze del bordello, ha detto di provare orgoglio per essere riuscita a testimoniare la sua (la loro) condizione.
Rithy Panh – “non faccio film sulle persone, ma con le persone” – ha concluso affermando che la sua opera è ispirata alla convinzione che siamo tutti responsabili per quello che accade, anche se non siamo colpevoli.
La carta non può avvolgere la brace: (titolo originale Le papier ne peut pas envelopper le braise) Regia: Rithy Panh – Fotografia: Prum Mesar, Maris Christine Rougerie – Suono: Sear Vissal – Musica: Marc Marder – Produzione esecutiva: Catherine Dussart Productions, Institut National de l’Audiovisuel (INA), France 3, France 5 (Francia/Cambogia, 2007, Beta SP, durata 90’).
Straordinario, commovente, terribile documentario sulla condizione di un gruppo di giovani e meno giovani (dai venti ai 34 anni) donne cambogiane, riprese durante il giorno di riposo dai turni massacranti e umilianti della professione di prostitute. Il regista Rithy Panh, autore di numerosi altri documentari sulla realtà della Cambogia, è riuscito grazie ad un lavoro di indagine rispettoso e accurato ad entrare in un universo solitamente impenetrabile, raccogliendo il grido di disperazione di un’umanità condannata ad un destino infame a causa dell’estrema povertà delle famiglie d’origine (nel paese asiatico ancora fondamentale cellula di supporto per l’individuo). Rithy intervista alcune ragazze, e le riprende quando ciò innesca un confronto tra di loro e iniziano ad interrogarsi su cosa le ha portate a quel punto, o quando ad una nuova arrivata viene data una ciotola di riso e qualche consiglio su come affrontare quello che la aspetta. Una giovane esprime la propria tristezza con una canzone improvvisata sulle proprie vicissitudini, mentre l’acquazzone tropicale a cui si abbandona ne intride i vestiti e l’anima. Un’altra, più prosaicamente, è diventata esperta nel recuperare dal bicchiere le ultime gocce di mâ, l’amfetamina di cui non può fare a meno. Eppure, il fatto stesso di ritrovarsi insieme, di riuscire a parlare del destino comune, di fare fronte ai soprusi della padrone e dei suoi servi permette a Da, quasi la portavoce del White Building di Phnom Penh dove sono “lavorano” le ragazze, di intravedere un futuro diverso per sé e le sue compagne di sventura.
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