Un tempo felice per il cinema e la commedia italiana ed all’italiana, questo si sarebbe definito un cast di stelle per un classico film ad episodi. Anche se, in questo caso, i suddetti non riescono a legarsi ed intrecciarsi, pur mantenendo ognuno la propria autonomia, in un film che, per lo spirito che lo anima, sembra essere un unicum, uno sgangherato pamphlet sui tanti vizi e le pochissime virtù di un’Italia in pieno declino.
Lo stato delle cose di un paese allo sbando, meschino, dominato ormai dalla permanente vocazione all’arte della sopravvivenza, alla furberia, all’accattonaggio, obnubilato spesso da un’incapacità ed un’ottusità a saper guardare. Anima nera del paese, perfettamente rappresentato anche dallo sguardo velato, oscurato che hanno anche i fratelli Vanzina, in fondo i nostri Cohen, in quest’ultima opera. I Vanzina, forse anche per l’aria che hanno respirato in famiglia, figli dell’ottimo artigiano Steno (iniziamo a limitare i termini “grande” usati a sproposito per qualsiasi buon regista che paia un gigante nel desolato panorama attuale), sono sempre stati un gradino più in alto, per creatività e fattura, rispetto alla pletora di registi commerciali alla Parenti, alla Oldoini ed ai tanti emuli in minore.
Le Vacanze di Natale, gli Yuppies, i Sapori di Mare, prima di diventare generi e filoni seriali, sono stati dei prototipi dei Vanzina, seppur a loro volta ispirati da precedenti della commedia e della farsa all’italiana. Ma la cifra antropologica degli anni ’80 era un’esclusiva originalità dei due fratelli. Ogni film, scritto e diretto da Carlo ed Enrico, ha cercato comunque una via vanziniana alla satira, alla risata, alla critica umoristica del costume. Pensiamo al geniale 2061 – un anno eccezziunale , che ha anticipato di poco le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità, raccontando le avventure di post-patrioti, condotti da Diego Abatantuono, in un’Italia nuovamente divisa, in una sorta di visionaria fantascienza risorgimentale.
Buona giornata è un capitolo meno memorabile, del percorso vanziniano. Macchiette stantie a raccontare l’Italia di oggi, attori più che validi, imprigionati in vecchie riproposizioni che risalgono realmente alla prima commedia all’italiana degli anni ’50. Pensiamo al principe squattrinato e presenzialista interpretato da Christian De Sica, ammuffito riciclaggio di similari ritrattini già disegnati dal padre Vittorio e da Alberto Sordi che, nelle movenze e nei tic, Christian imita in modo persino irritante. Tra manager siculo-milanesi e tifosi fiorentini cornificati, il film si trascina attraverso vecchie maschere del cinema all’italiana.
Si discostano tre episodi che per le storie raccontate e per la valenza degli attori, riescono a raggiungere la sufficienza ma non parliamo comunque di capolavori!
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Il senatore interpretato da Lino Banfi, che recupera il banfiota in un personaggio però decisamente cinico e spregiudicato. Un politico condannato salvato in extremis con l’immunità parlamentare, dall’unico voto di scarto di un collega morto in un rapporto con un trans e trascinato in parlamento a braccio, fatto letteralmente votare, con effetti sgradevolmente comici. Oppure Maurizio Mattioli, ricco evasore, finto povero che nell’epoca rigorosa dei “tecnici”, le prova tutte pur di evitare i controlli fiscali e, ancora, Diego Abatantuono, venditore di domotica in un remoto paesino pugliese, nel surreale contrasto tra due italie, una già in un futuro digitalizzato e l’altra ancora legata alla tangibile matericità dei dialetti e dei cibi. Un digital divide raccontato con intelligente umorismo.
A parte questi momenti gradevoli, il film è un passo indietro nella creatività vanziniana, un momento di riflessione, una pausa di rilettura antropologica della Nazione.
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