Avrebbe mai pensato, l’appena ventiquattrenne Yoo Min-Young, di inaugurare con il suo Cho-De (Invitation), insignito del Premio Orizzonti YouTube per il miglior cortometraggio, una cerimonia di premiazione ad anello dove la piccola Corea del Sud è riuscita ad imporsi su molossi americani, francesi e, perché no, per una volta anche italiani?

Di certo, ha aperto la strada ad un’assegnazione di premi riservati alla sezione Orizzonti un po’ incongrua, ma tutto sommato soddisfacente, considerando anche la comprensibile diffidenza nei confronti di un insospettabile Presidente come Pierfrancesco Favino, che, coadiuvato da membri d’eccezione come la videoartista Runa Islam e, soprattutto, Amir Naderi, uno dei massimi registi iraniani di sempre, ha finito per assegnare il Premio Speciale della Giuria al belga Frédéric Fonteyne e al suo godibile, ma convenzionale e francamente fuori posto in una sezione teoricamente all’insegna dell’avanguardia come Orizzonti, Tango libre, che resta comunque uno dei film più amati e accessibili in competizione.

A ricevere il premio maggiore però, ed è una bellissima notizia, è il cinese Wang Bing, presentatosi quasi in sordina e a festival quasi terminato con il bellissimo San zi mei (Three Sisters): Venezia ha finalmente l’opportunità di risarcire il più grande documentarista della sua generazione, che passò disgraziatamente sotto silenzio due anni fa con lo straordinario Jiabiangou (The Ditch), suo esordio nel cinema di finzione. Però il trionfo di Bing non è soltanto un modo per fare ammenda dell’indifferenza e della miopia del 2010, ma il riconoscimento meritato per l’opera più significativa e riuscita di tutta Orizzonti, un’esperienza di certo non per tutti i gusti, ma che i giurati hanno sacrosantemente premiato a scapito di concorrenti più facili, a volte decisamente riusciti (l’algerino Yema e il nostro L’intervallo, per citare due nomi), a volte semplicemente più furbi (il saudita Wadjda e Low Tide di Roberto Minervini).

Accolta la giuria della sezione principale, si comincia, come di consueto con il Premio Mastroianni, vinto – per una volta – da un esordiente pressoché assoluto (e non da “emergenti” con almeno un decennio di carriera alle spalle come le recenti Jasmine Trinca e Mila Kunis), l’italiano Fabrizio Falco, il cui impeto interpretativo dirompente ed eclettico (loucasteliano in Bella addormentata e più germiano per Ciprì) gli ha permesso di essere ricompensato per entrambe le pellicole di cui era coprotagonista.

Il premio per il Contributo Tecnico resta sempre entro i confini nazionali con la vittoria, forse non nettissima, visto l’innegabile (ma programmaticamente ignorato) prodigio messo in scena dal solito Emmanuel Lubezki in To the Wonder, di Daniele Ciprì per la fotografia del suo E’ stato il figlio: è una scelta importante, che finalmente valorizza il quasi ventennale lavoro di uno dei più grandi poeti dell’immagine dell’Italia contemporanea.

Il premio per la miglior sceneggiatura finisce, con qualche moto di delusione, ad Apres mai di Olivier Assayas, per il quale i più ottimisti prospettavano l’ingresso nella triade maggiore, se non addirittura il premio principale: il capolavoro del Concorso china la testa e si accontenta di un meritato, ma riduttivo, gettone di presenza, che da quel momento, vista anche la dichiarazione in apertura del Presidente Michael Mann, chiude ogni possibilità da parte del francese di aggiudicarsi un secondo, sacrosanto trofeo.

Un po’ inaspettatamente, vista anche la presenza in Sala della eccezionale Maria Hofstätter, eroina e vittima di Paradies: Glaube, a portare a casa la Coppa Volpi è la protagonista dell’israeliano Lemale et ha’chalal, la ventiduenne semiesordiente Hadas Yaron, inizialmente data come favorita per il premio Mastroianni. Si tratta di un gesto forte, abbastanza coraggioso, proprio come lo fu, a Venezia67, la vittoria della greca Ariane Labed (anch’ella debuttante) per il graziosissimo e contagioso Attenberg, ma in un’edizione dominata da performance forti e a tratti estreme come quelle della già citata Hofstätter o appartenenti a film tutt’altro che riusciti, come quelle di Jo Min-Soo per Pieta o di Franziska Petri per Izmena viene davvero da pensare se davvero si sia trattato della scelta più appropriata.

L’equivalente maschile del premio viene attribuito, con relativa sorpresa, all’americano The Master: sia ben inteso, la sorpresa non viene dall’affermazione definitiva di Joaquin Phoenix, vincitore annunciato già dai minuti successivi alla proiezione per la stampa, ma dalla decisione di conferire la Coppa anche all’irrinunciabile co-protagonista Philip Seymour Hoffman. L’intenzione, accolta con entusiasmo da chi ha amato The Master e con più reticenza dai ligi osservanti del regolamento lidense, è lodevole, e valorizza l’effettivo yin e yang del Festival, una coppia che sarebbe impossibile immaginare diversa e la cui alchimia ha giocato un ruolo tutt’altro secondario nella riuscita del film.

Non finisce qui, però, per l’ultimo progetto dell’autore di Boogie Nights: dopo il Prix de la mise en scène per Ubriaco d’amore e l’Orso d’Argento per Il petroliere, Paul Thomas Anderson si candida al titolo di miglior cineasta della sua generazione, o perlomeno più amato dall’orbita festivaliera, visto che il Leone d’Argento – consegnato sul palco con l’abituale confusione con il Gran Premio della Giuria e suscitando un senso di imbarazzo generale difficile da frenare – completa, ad appena 42 anni, la sua personale collezione di premi per la regia racimolati in giro per i tre concorsi cinematografici europei maggiori. La deliberazione accontenta tutti ed è effettivamente inappuntabile, anche se, fra i 18 partecipanti, non mancavano opere dalla notevolissima messinscena, come il belga La cinquième saison o il nostro Bella addormentata.

Ideale vincitore del Gran Premio è l’austriaco Ulrich Seidl con il suo Paradies: Glaube, che ha saputo attraversare indenne gli strali della critica e del pubblico più conservatori e che, rispettando alla perfezione il metodo stilistico e il bagaglio filosofico dell’autore di Canicola, ha dato filo da torcere a chi cercava solo basse provocazioni (“non sono un blasfemo”, ha concluso il regista nel suo discorso d’accettazione) e, pur con un po’ di compiacimento, si è retto soprattutto sulla forza del proprio rigore, della propria severità e della propria mancanza di compromessi.

Non c’è stato dubbio sin dal 3 di settembre: Kim Ki-Duk avrebbe indubbiamente vinto il Leone d’Oro e così è stato, fra gli schiamazzi dei suoi fedelissimi e l’amarezza di chi, dopo la cura Arirang, avrebbe desiderato il prosieguo di carriera di un regista che ha finalmente imparato a convivere con le proprie paure e i propri fantasmi, senza abbandonarsi furbescamente a provocazioni di bassa lega, a dimostrazioni anche reiterate di un evidente e irrisolto disordine mentale, a efferatezze gratuite e all’intenzione ormai ammuffita di épater le bourgeois a qualunque costo, sacrificando sugli altari dello shock e del ricercato eccesso un discorso artistico coerente.

Un commento

  1. Pingback:Le vie del cinema da Venezia a Roma – XVIII Edizione | Eventi | Binario Loco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *