Il giovane Robbie va a far visita alla sua ragazza Leonie che è in ospedale perché ha appena partorito il loro figlio Luke. Sopraffatto dall’emozione del momento, Robbie giura che il bimbo non dovrà sopportare la sua stessa tragica vita fatta di piccoli crimini e dolore esistenziale. Infatti, l’aver evitato per un soffio una nuova condanna detentiva, gli fa pensare di poter sfruttare l’occasione per il suo riscatto finale. Scontando questa sua ultima pena impegnato nei servizi di pubblica utilità, Robbie conosce quindi Rhino, Albert e Mo che, come lui, faticano a trovare un lavoro onesto a causa della fedina penale sporca. I quattro immaginano allora di trasferirsi nelle colline scozzesi per aprire una distilleria di whisky pregiato. Se però tutto ciò resterà un sogno o diventerà il loro nuovo futuro, solo gli angeli possono saperlo.
Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2012, La parte degli angeli di Ken Loach nasce, come ha affermato il regista stesso, da un preoccupante dato statistico: alla fine dello scorso anno, il numero dei giovani disoccupati in Gran Bretagna ha superato per la prima volta il milione.
L’urgenza di raccontare le conseguenze di questa situazione su questa generazione, che spesso ha come unica prospettiva un futuro grigio e vuoto, senza un’occupazione, un impiego fisso e la possibilità di costruirsi una famiglia, ma soprattutto sulla loro consapevolezza, sulla loro identità, ha spinto il regista ad esplorare un registro nuovo e inaspettato, del tutto inedito rispetto ai suoi precedenti film, dando vita a un racconto a metà strada tra realismo e fiaba, tra satira lieve del mondo scozzese e dei suoi inossidabili miti e racconto di formazione, tra documentario sulle condizioni di vita dei giovani nella periferia di Glasgow e commedia malinconica e agrodolce, con un pizzico di humour grottesco, come nella migliore tradizione britannica, e una buona dose di leggerezza e di magia.
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La parte degli angeli riflette soprattutto su due situazioni semplici ma cruciali: la nascita di un figlio che cambia la vita e proietta nel futuro, suscitando interrogativi pratici ed esistenziali molto profondi sul giovane Robbie e il mondo esterno, incerto, precario, che lo destabilizza e scalfisce la sua sicurezza, lasciando riaffiorare il suo tragico passato di violenza e di povertà. Stretto tra questi due fuochi, spinto da questi eventi, Robbie si trova ad affrontare un difficile processo di crescita, di costruzione della propria identità: deve scegliere se essere un perdente o un vincente. E in una simile domanda c’è una forte tensione drammatica, sia verso il mondo esterno, sia verso il suo mondo interiore: tutti lo considerano un perdente, un buono a nulla, il mondo non si fida di lui ed è lui per primo a non essere sicuro di avere in se stesso la forza necessaria per cambiare vita.
Questa forza, questa ultima chance di riscatto e di rinascita Robbie la trova nel suo ingegno, nel suo inaspettato talento: un innato gusto per il whisky. Nel corso del film, il tradizionale whisky di malto non è più solo una nota di realismo, ma anzi diventa una metafora, il simbolo di questa rinascita, quasi fosse una pozione magica di una fiaba, un filtro che rende il giovane protagonista più forte e quasi invulnerabile, pronto ad affrontare le prove disseminate lungo il cammino e a conquistare l’oggetto del desiderio: un futuro. E quel 2% di whisky, quella parte degli angeli, diventa la parte sottratta ai grandi Maestri e riservata ai profani, agli esclusi, diventa la parte del futuro che il mondo riserva ai giovani, l’unico spazio possibile di crescita, l’unica chance da afferrare al volo, in cui dimostrare la propria abilità e il proprio valore, in cui trovare se stessi.
Ken Loach riesce a raccontare tutto questo con i toni lievi della commedia, con molti momenti in cui si ride di gusto, in cui si entra nel campo della slapstick comedy, della battuta volgare, del grottesco, affidato soprattutto al personaggio di Albert. La propensione del regista inglese verso realismo traspare nella direzione degli attori, quasi tutti non professionisti, ad eccezione di John Henshaw e Roger Allam, spesso lasciati liberi di improvvisare, nella essenzialità della messa in scena, ma soprattutto nella fotografia di Robbie Ryan, che adotta la luce naturale per esaltare i bruni e i grigi della realtà contemporanea.
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