Quella del 2012 è stata un’edizione della Mostra di Venezia dove in molti titoli del Concorso si è potuto nascondere un significativo ed a tratti sintomatico bisenso, capace di ampliare considerevolmente, se non di confutare la chiave di lettura primaria del film: il cammino compiuto dai personaggi di Terrence Malick in To the Wonder è, infatti, davvero soltanto la scalinata dell’abbazia di Mont Saint-Michel o si tratta piuttosto di un tragitto molto più complesso, che culmina con il raggiungimento di uno stato di estasi che tende al divino, dove la “meraviglia” del titolo ha ben poco a che fare con l’architettura e che in realtà si riferisce al manifestarsi, terreno o celeste che sia, del miracolo dell’amore?

Qual è il prezzo a cui si riferisce Ramin Bahrani, quello monetario e venale degli appezzamenti da conquistare e degli affetti da comprare, oppure quelli simbolici del sacrificio e della sopravvivenza? E la bellocchiana Bella addormentata è un disarmante e beffardo accostamento fra il caso privato di Eluana Englaro e la fiaba di Charles Perrault oppure qualcosa di più generalizzato e che descrive in toto lo stato comatoso del nostro Paese?

L’ambiguità più gustosa di tutte, però, è anche quella più immediata, che individua nel carismatico guru di Paul Thomas Anderson un Maestro, sì, ma anche e soprattutto un Padrone: The Master – che in Italia, un po’ per pavidità, un po’ per necessità, è stato distribuito ora, gennaio 2013, con il titolo rimasto invariato – non è il convenzionale e proporzionato biopic che sciaguratamente si aspettava quella fetta di pubblico in attesa di un nuovo Magnolia, ma il nuovo capitolo della filmografia di un autore fra i più originali e sanamente scriteriati dell’America contemporanea, stanco di sentirsi definire di volta in volta il nuovo Scorsese, il nuovo Altman o il nuovo Kubrick a seconda della situazione.

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Nello specifico, ritorna alla mente soprattutto il più (ingiustamente) trascurato episodio della carriera del regista losangelino, quell’Ubriaco d’amore che non passò inosservato a Cannes che segnò una sintomatica rottura con quanto da lui girato fino ad allora: esattamente quanto il Barry Egan della pellicola del 2002 (un cerebropatico e sorprendente Adam Sandler, che dopo l’insuccesso del film, ritornò senza ulteriori indugi alle commedie scorreggione che più gli competono), l’alcolizzato veterano della Marina Freddie Quell, che qui ha il volto segnato e selvatico di un immenso Joaquin Phoenix, è un personaggio barricatosi all’interno del proprio mondo interiore, capace di scatti d’ira incontrollati e visibilmente impreparato a qualsiasi rapporto umano; ma se nel primo caso era sufficiente il bizzarro e tenero amore di una ragazza inglese a garantire la redenzione, qui il discorso si fa più complesso e concreto, se non addirittura antitetico, visto che i sentimenti non sono più la semplicistica risposta a tutto di un tempo.

Questa volta, il salvataggio (quasi un tema ricorrente nella poetica andersoniana) assume i connotati di una bizzarra e distorta folgorazione sulla via di Damasco, dove il Gesù Cristo della situazione, il fantasioso Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman, straordinario) è in realtà un ciarlatano di terz’ordine scaltro abbastanza da sfruttare il senso di disorientamento della piccola borghesia statunitense all’alba del secondo dopoguerra: l’incontro fra i due protagonisti, però, non si sviluppa tradizionalmente lungo un percorso comune di crescente fiducia e di confidenza reciproca, ma – lasciando peraltro una giusta, accattivante ellissi sull’evoluzione del loro rapporto – si articola più patologicamente in una relazione simile a quella fra un uomo e il suo cane da compagnia (e soprattutto “da guardia”), ancor più che, come già esplicitato sin dall’inizio, fra uno scienziato e la sua cavia: è come un dobermann in difesa del suo padrone che Quell si scaglia contro i poliziotti accorsi ad arrestare Dodd, così come è ai limiti del canino l’accoglienza che gli riserva nel loro primo incontro dopo una separazione forzata, e così è per molti episodi del film, dove il “discepolo” sfoga i suoi istinti, sessuali in primis, come una vera bestia guidata dall’istinto.

The Master, pertanto, svela immediatamente il suo carattere di studio sociobiologico, quasi ai limiti dell’etologia umana, non temendo di risultare respingente, razionalistico, se non addirittura freddo, ma illustrando pezzo per pezzo le tappe del consenziente e morboso asservimento dell’individuo medio al potente di turno: anche per questo, la nuova fatica di Paul Thomas Anderson, in un’epoca di crisi e di falsi profeti a cui basta davvero poco per appropriarsi del consenso (noi, qui, lo sappiamo bene), è un’opera profondamente politica e fortemente legata al suo tempo, il cui finale sospeso lascia un profondo senso di inquietudine, visto che, a meno che non si rimanga ancorati al reale sviluppo del ventesimo secolo o, peggio, si identifichi pigramente il personaggio di Hoffman con Ron Hubbard, il fondatore di Dianetics che ha effettivamente funto da modello per il personaggio, non ci è dato sapere che cosa farà Dodd con il potere e il denaro accumulato dalla sua Causa.

E se non fosse già sufficiente ritenere The Master una pellicola di importanza colossale per una lucida prospettiva del mondo occidentale di inizio secolo, è anche la forma a conferirgli un’innegabile unicità, con quella nervosa, spigolosa fotografia ad opera del rumeno Mihai Malaimare Jr., il principale (se non, per i più severi, unico) elemento di riscatto nelle più recenti fantasie (o, sempre per i più severi, catastrofi) coppoliane; con quella scelta vincente, fortemente caratterizzante e ariosa di impiegare una pellicola 65mm (non si vedeva in un film di fiction dai tempi dell’Hamlet di Kenneth Branagh), con il risultato di avvicinarsi ambiziosamente al glorioso Cinemascope e agli ampi spazi dei kolossal alla David Lean, volendo sperimentalmente accostare, questa volta, una tecnica orgogliosamente anacronistica a un progetto e una vicenda che di propriamente e canonicamente epico non ha nulla; con quelle musiche firmate dal ritrovato Jonny Greenwood, ormai sempre meno legato al pop sofisticato dei suoi Radiohead e più nobilmente vicino agli studi dissonanti del polacco Krzysztof Penderecki e, soprattutto, al minimalismo di LaMonte Young.

Inseritosi perfettamente in una selezione di titoli tutti in un modo o nell’altro fieri di fare la differenza e di non adagiarsi negli schemi convenzionali (persino l’altrimenti reazionaria Italia quest’anno non ha paura di rischiare con due sensazionali anomalie come Ciprì e Bellocchio), The Master è la prima tappa indimenticabile del Concorso, un film-sorpresa che apparentemente si distacca dalle scelte d’avanguardia dell’ex-direttore Marco Muller, e che, nel suo tentativo riuscitissimo di andare oltre le aspettative più scontate, avrà anche infranto la tradizione della segretezza che ha sempre accompagnato l’ultimo concorrente della Mostra, ma che ne ha rielaborato il senso presentandoci qualcosa di drammaticamente, corroborantemente e completamente diverso da ciò che osavamo sperare.

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