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Non lasciatevi ingannare dal brutto e fuorviante titolo italiano: i magnati dell’oro nero, i tycoon delle sette sorelle non c’entrano nulla e neppure le quotazioni del greggio o l’OPEC. Qui siamo, piuttosto, dalle parti di Charlie Chaplin e della sua leggendaria Febbre dell’oro, con la semplice sostituzione del giallo con il nero. Si parla, dunque, di cercatori di petrolio negli Stati Uniti, agli inizi del XX secolo.

 

 

Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis) è il classico self made man americano che, da povero minatore, si trasforma in un importante cercatore di petrolio. Ha la spregiudicatezza necessaria, la tecnologia e una squadra di lavoratori alle sue dipendenze con cui gira gli States, comprando diritti di sfruttamento di terreni e costruendo pozzi. Il suo problema è di riuscire ad arrivare prima degli altri, prima delle grandi compagnie, Standard Oil e Union Oil, con cui non può competere.

 

Spinto da un suggerimento pagato pochi dollari ma soprattutto dalla sua intuizione, giunge in una desolata landa del West dove il petrolio sembra abbondare, compra a pochissimo tutti i terreni e inizia lo sfruttamento industriale. Al suo fianco c’è sempre il figlio, un ragazzino di nome H.W. (Dillon Freasier). La madre è morta nel darlo alla luce, così racconta Daniel, e il bambino lo segue sempre nei suoi spostamenti.

 

Nella polverosa cittadina (!?!) di Little Boston, quattro case di legno, una stazione ferroviaria, una chiesa e varie fattorie sparse nel circondario, Daniel si scontra con un ambiguo predicatore religioso, Eli Sunday (Paul Damo) che, dopo averlo favorito, rivendica nei suoi confronti una sorta di leadership messa in discussione dal benessere che si sta diffondendo per la zona dopo il successo dell’estrazione del petrolio. Ma i valori semplici e pionieristici della gente del luogo cominciano a scricchiolare e i germi dell’inganno e della corruzione iniziano a diffondersi. È il prezzo da pagare al profitto, alla modernità.

E inizierà a scorrere il sangue: There Will Be Blood.

 

Paul T. Anderson non è un regista prolifico. Solo quattro film, in undici anni. Per quest’ultima pellicola si è gridato al capolavoro. Vedremo se a Berlino riuscirà a bissare il successo ottenuto con Magnolia (1999).

 

Forse, Il petroliere non è un capolavoro assoluto. Troppo “americano” nei contenuti e nei valori che esprime per poter assumere una valenza universale ma è sicuramente un buon film sebbene, nella seconda parte, la narrazione risulti lenta e poco definita. Ciò che colpisce lo spettatore, al di là dell’interpretazione di Daniel Day-Lewis, giustamente candidato all’Oscar, e di Paul Damo, è l’ambientazione desolata, fosca, cupa ma con una luce metaforica degna dei pittori fiamminghi straordinariamente fotografata, e ancor più splendidamente esaltata dalla musica ma, al solito, l’Academy non si è smentita: dopo aver ignorato Into the Wild e le splendide canzoni di Eddie Vedder, candida Il petroliere ad una serie di nomination ma si dimentica completamente di Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead, e della sua colonna sonora.

 

 

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