The Reluctant Fundamentalist, pellicola d’apertura dell’imminente Mostra del Cinema di Venezia 2012, è il ritratto di un giovane pakistano residente a New York impossibilitato a conciliare la crescente diffidenza del suo paese d’adozione con il richiamo ancestrale della madrepatria lontana, con la quale circostanze più o meno fortuite finiranno per riunirlo.
Al di là di ciò che si possa pensare della carriera di Mira Nair, l’ultimo episodio della sua filmografia è l’anticipazione più appropriata per il processo di rinnovamento della kermesse lagunare garantito dal rientro di Alberto Barbera, e pare suggerire polemicamente il distacco definitivo dall’era di Marco Muller, romano di nascita, direttore a tratti controverso e accolto da un clima di progressiva incertezza che ha finito per farlo approdare un po’ per caso e un po’ per necessità alla guida del Festival della propria città d’origine.
A prescindere da speculazioni e dietrologie, la scelta di Alberto Barbera di ripartire dalla vincitrice della sua ultima stagione da direttore prima della rimozione impostagli dall’allora ministro per i beni e le attività culturali Giuliano Urbani sembra davvero un invito a fare piazza pulita di quella gestione precedente che aveva apparentemente condotto la Mostra al punto di non ritorno.
Da quest’anno i titoli di ciascuna sezione non potranno andare oltre la ventina, con un risultato di forte ridimensionamento tanto per il Concorso ufficiale quanto, in particolare, per Orizzonti che, recentemente spappolatasi in una categoria di avanguardia variamente assortita anche per via dell’accorpamento di Corto Cortissimo, era arrivata a contare oltre cinquanta partecipanti; la “riserva indiana” di Controcampo Italiano viene rasa al suolo dopo appena tre anni, mettendo fine a quella sorta di ghettizzazione forzata per una produzione nostrana che forse non avrebbe mai potuto ambire alle selezioni principali; persino l’ormai tradizionale meccanismo del Film Sorpresa, peculiarità lidense del decennio passato, viene modificato affinché l’ultimo nome venga svelato non nell’atmosfera di segretezza della vigilia della proiezione, ma a pochi giorni dalla conferenza stampa del 26 luglio.
Ovunque si avverte l’intenzione di snellire e di rendere coesa una rassegna che pareva aver pagato il prezzo dellapropria dispersività.
In fin dei conti ci si era anche saputi abituare ai vezzi e alle idiosincrasie del più longevo patrono mai capitato nel capoluogo veneto, e negare gli innumerevoli meriti del suo operato sarebbe profondamente errato: rinunciare alla tanto sbeffeggiata vena orientalistica di Marco Muller ci avrebbe privato di nuovi maestri da lui lanciati internazionalmente come Kim Ki Duk, Jia Zhangke, Wang Bing e Cai Shangjun (tutti autori di un Film Sorpresa, peraltro); rifiutare la sua attenzione per le cinematografie periferiche non avrebbe concesso ad alcuni Stati del mondo di eludere la loro invisibilità, dal Ciad di Mahamat-Saleh Haroun all’Algeria di Tariq Teguia, dallo Sri Lanka di Vimukthi Jayasundara all’Etiopia di Haile Gerima; impostare un Festival seguendo un’ottica meno babelica avrebbe impedito di accostare con disinvoltura il grande spettacolo popolare di George Clooney e Darren Aronofsky alle pure sperimentazioni di Apitchatpong Weerasethakul, di Athina Rachel Tsangari e di Jean-Marie Straub.
D’altro canto, si sarebbe fatto volentieri a meno dei verdetti scandalosi delle edizioni 2007 e 2010, quando a vincere furono soprattutto rispettivamente diplomazia e clientelismo, o delle retrospettive – fin troppo ricche – su un cinema nazionale di genere (da “W la Foca” in giù) non del tutto immeritevole di restare minore, o della dimenticabilissima pre-apertura affidata a Ezio Greggio in un’aura di palpabile imbarazzo.
La perestrojka barberiana, insomma, sarà destinata sin da subito ad alimentare le riserve dei nostalgici – in primis, un Enrico Lucherini che non esita ad appioppare alla nuova amministrazione l’appellativo di “talebana” – e a rincuorare gli sfiduciati, proprio come un nuovo presidente arrivato al potere dopo il periodo autoritario di un Piccolo Padre, la cui condotta potrà essere giudicata con equilibrio soltanto dopo una fase di oculata decantazione.
Venendo al Concorso, si evince immediatamente una manciata di novità determinanti: nessun paese fa capolino con più di tre titoli (a differenza di casi clamorosi come i sei contendenti statunitensi del 2011), la Cina è totalmente assente anche in veste di coproduttrice e la durata media delle pellicole si aggira sui 105′, con un solo film a superare significativamente le due ore.
Tutti punti cardine di una ordinaria gestione Muller che qui vengono drasticamente espunti.
A farsi notare è la quantità considerevole di registi per la prima volta in competizione al Lido, a cominciare da Olivier Assayas, alfiere della post-Nouvelle Vague che con “Apres Mai” riparte dal contesto sessantottino del suo capolavoro “L’Eau Froide”, continuando con Xavier Giannoli, rivelatosi due anni fa con il bel “A l’Origine” e presentatosi quest’anno con “Superstar” (protagonista è Cecile de France), l’unica autentica commedia del novero, arrivando a Kirill Serebrennikov e le eccentriche relazioni extraconiugali di “Izmena”, passando per i più misteriosi Valeria Sarmiento, vedova/montatrice di Raul Ruiz, che porta Nuno Lopes, Marisa Paredes e uno stuolo di comparsate di lusso di deoliveiriana memoria (da Michel Piccoli a Catherine Deneuve, fino a John Malkovich) nel mastodonte bellico d’era napoleonica “Linhas de Wellington”, e Rama Burshtein, esordiente con il suo “Lemale et Ha’halal”, finendo con Terrence Malick, il quale, in caso di vittoria del suo “To the Wonder”, opera che ha sancito l’inizio di un definitivo affrancamento dai lunghi periodi di sosta fra un progetto e l’altro, si unirebbe a Robert Altman, Michelangelo Antonioni e Henri-Georges Clouzot nell’olimpo dei vincitori di tutte e tre le principali manifestazioni cinematografiche d’Europa.
La giuria presieduta da Michael Mann si troverà a giudicare diverse vecchie conoscenze di Venezia, dal già citato Kim Ki-Duk, che dopo la crisi umana e creativa risolta dal semi-documentario “Arirang”, suo primo film girato a più di un anno di distanza dal precedente, conferma il suo nuovo corso più efferato ed esplicito con “Pieta”, proseguendo con il Leone d’Argento Brian de Palma e il suo “Passion”, remake dell’opera di congedo di Alain Corneau, il morboso “Crime d’Amour”, che sostituisce Ludivine Sagnier e Kristin Scott-Thomas con Noomi Rapace e Rachel McAdams, quest’ultima già nel cast di “To the Wonder”.
Ritornano anche Takeshi Kitano (“Autoreiji: Beyond”, sequel del film in concorso a Cannes 2010), Ulrich Seidl e il secondo capitolo della trilogia inaugurata appena due mesi fa sulla Croizette (“Paradies: Glaube”, questa volta ambientato in un centro di dimagrimento) e Brillante Mendoza, presente solo il semestre scorso a Berlino, il più celebre regista della new wave filippina (in laguna con “Sinapupunan”).
Promossi dalle sezioni collaterali delle stagioni passate arrivano Harmony Korine che, lontano sideralmente dal no-budget di “Gummo” e di “Trash Humpers”, si riaffaccia con il linguaggio più autoironicamente convenzionale di “Spring Breakers” e con un cast degno del Gregg Araki più scatenato; Peter Brosens e Jessica Woodworth, premio De Laurentiis nel 2006 con “Khadak”, che tornano in Belgio con la distopia rurale di “Het Vijfde Seizoen”; in coda, Ramin Bahrani, trentasettenne di origini iraniane premio Fipresci a Venezia65, autore di “At Any Price”, melodramma familiare con Zac Efron e Dennis Quaid.
Infine, si mostra più compatta e agguerrita del solito la compagine italiana, priva della medietà inoffensiva di Venezia62, delle promesse non mantenute di Venezia64, dei gravi squilibri di Venezia66 e della manifesta impreparazione di Venezia68: Marco Bellocchio, nonostante il boicottaggio da parte del Consiglio Regionale del Friuli, ha portato a termine il suo sentitissimo omaggio alla vicenda pubblica e privata di Eluana Englaro, “Bella Addormentata” (con Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher e Maya Sansa); Francesca Comencini, con “Un Giorno Speciale”, adatta il romanzo di Claudio Bigagli “Il Cielo con un Dito” e sembra aggirarsi dalle parti dell’Ermanno Olmi de “Il Posto” e de “I Fidanzati”; infine Daniele Ciprì, figura di culto sia del piccolo, sia del grande schermo dello scorso ventennio, dirige Toni Servillo – anche coprotagonista di “Bella Addormentata” – in “E’ Stato il Figlio”, suo primo esperimento con il colore, distante dal contesto post-CinicoTv e senza il fedele Franco Maresco al suo fianco.
In attesa che il concorrente numero 18 venga formalmente annunciato, resta difficile, se non inutile, individuare in una selezione così variegata e onnicomprensiva una tematica comune, e le pretestuose ipotesi formulate finora – dal fondamentalismo alla crisi – rimangono solo la dimostrazione della goffa pretesa secondo la quale una rassegna artistica debba sempre necessariamente fare riferimento ad un’attualità univoca e globalizzata: la sola cosa che conta ora, per la riuscita della Mostra, è che la spinta riformatrice di Alberto Barbera non si esaurisca con le dichiarazioni di intenti e con la facile ironia, che non si vanifichi quanto di buono, di innovativo e di irripetibile si sia avuto dal 2004 sotto la guida di Marco Muller, responsabile, con Venezia68, di una delle annate più entusiasmanti e riuscite di sempre, verdetti compresi.
E ci si augura vivamente che aver scelto la nuova versione del romanzo di Victor Hugo “L’Uomo che Ride” per la proiezione di chiusura possa tener fede al titolo – ma soltanto a quello, si capisce – ed essere di buon auspicio per gli sviluppi futuri della manifestazione.
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