Ci si riaffaccia sul 67° Festival di Cannes con l’ultimo (e per molti versi definitivo) lavoro di Jean-Luc Godard, quell’Adieu au langage che qualifica l’autore di La cinese come l’unico possibile epigono postmoderno della poetica di Méliès, se non addirittura dell’indagine pioneristica dei Lumière: suscita ancora stupore la facilità con cui Godard approccia la materia cinema destrutturandola e negandola a partire dalle sue componenti più basilari ed oggi scontate, con la stessa sicurezza di un Picasso o di uno Steve Reich: Adieu au langage è una di quelle opere che mette tutto in discussione, a cominciare dall’uso della terza dimensione, tecnica che il cineasta francese – similmente a quanto fatto da Lynch con il digitale nel suo INLAND EMPIRE – sfregia e violenta sottoponendo l’occhio dello spettatore a drastiche, programmatiche scomposizioni (assolutamente da manifesto sono i momenti in cui le due immagini sovrapposte non coincidono in nulla, provocando una sensazione di disorientamento totale).
“Il presente è morto”, esclama uno dei personaggi, e lo smascheramento del carattere fasullo della rappresentazione ad opera di Godard, simile ad una coltellata di Fontana, non potrebbe risultare più chiaro, fra canali audio abbandonati a loro stessi, stacchi di scena repentini, dialoghi composti in grandissima parte da citazioni – scelta irrinunciabile dai tempi della Nouvelle vague – ed il ricorso ad un numero infinito di formati video, quasi tutti rigorosamente in bassa qualità.
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Adieu au langage, oltraggioso cine-poema, è anche un elogio della nudità, artistica e antropologica, un invito a ripartire da zero cancellando decenni di auto-suggestione (la prima didascalia recita, in fin dei conti: “Se l’immaginazione ha fallito, non resta che rifugiarsi nella realtà”) e avvicinandosi al mondo con primitiva curiosità.
Alter ego del regista, pertanto, non può che essere il cane Roxy, che si aggira per la pellicola inconsapevole delle mistificazioni sociali e beatamente all’oscuro della distinzione fra Natura e Metafora (i due capitoli in cui il film è diviso), e la sua fuga finale oltre lo schermo ci fa intendere che l’opera di contestazione di JLG è tutt’altro che giunta al termine.
Il concorso riprende con la rabbiosa scarica antiborghese di Hardkor Disko, ritratto asettico e nichilistico della Polonia del ventunesimo secolo e del suo clima intriso di neo-edonismo post-sovietico e di corruzione latente.
Il tema dell’intruso che si infiltra con fini demolitivi all’interno dell’istituzione familiare non è sicuramente nuovo e viene da pensare che tanto Teorema di Pasolini, quanto Visitor Q di Miike e, ovviamente, Funny Games di Haneke, la più evidente fonte di ispirazione, abbiano affrontato l’argomento con maggior coraggio e criterio dell’esordiente Krzysztof Skonieczny, che abbastanza furbescamente lascia il pubblico senza risposte sulle origini e sulle ragioni del male.
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La misteriosa vendetta del giovane Marcin, compiuta come intermezzo fra squallidi rave casalinghi e stordimenti assortiti, procede con precisione sistematica, quasi chirurgica, in un bizzarro equilibrio di dilatazioni smodate e di furibonde accelerazioni.
Ed è proprio nell’impostazione registica, più che nel soggetto, il motivo di interesse di Hardkor Disko, nobilitato da una messinscena straniante e radicale che ricorda le più recenti invenzioni della New Wave greca: il distacco della cinepresa, che indugia ipnoticamente in lentissime panoramiche e in lunghe inquadrature fisse, sa infatti trasmettere un palpabile senso di inquietudine, grazie anche alla spettrale presenza del protagonista Marcin Kowalczyk, e infonde notevole fascino a molte sequenze (l’interminabile conversazione a tavola, che potrebbe andare avanti per ore, e l’omicidio del padre, decisamente anticlimatico), e, pur se a volte si ha l’impressione che Skonieczny debba ancora lavorare un po’ per affrancarsi da certi canoni estetizzanti derivanti dalla sua carriera nel videoclip, ciò che rimane a fine visione è comunque una discreta variazione su un assunto ormai cristallizzatosi nell’immaginario contemporaneo.
La giornata si chiude con l’attesissimo clou della sezione competitiva, la coproduzione anglo-americana A Most Wanted Man, che sancisce il ritorno al lungometraggio, dopo il disastroso The American, del film-maker olandese Anton Corbijn e forse l’unica parentesi autenticamente internazionale a una rassegna finora sedimentatasi sul Vecchio Continente. Il film segue fedelmente gli sviluppi del romanzo Yssa il buono di John Le Carré e imbastisce un complesso di intrighi e di doppi giochi che vede coinvolti agenzie di intelligence europee e statunitensi, ambigui fuggitivi ceceni, presunti terroristi islamici e varia cospirante umanità.
Corbijn smussa i difetti e i toni pretenziosi della sua fatica precedente e affida l’adattamento al commediografo australiano Andrew Bowell, concentrandosi sulla meccanicità dell’intreccio evitando di sbrodolare e ponendosi invisibilmente al servizio della storia e del suo importante stuolo di attori, praticamente tutti costretti a sfoggiare accenti improbabili, da cui è capace – un po’ insospettabilmente – di ottenere il meglio del loro potenziale. Rachel McAdams dimostra di avere un limite alla propria connaturata cagneria, Willem Dafoe tiene a bada le smorfie e sfodera una prova per una volta non sopra le righe, Robin Wright ripropone il ruolo di subdola macchinatrice che in House of Cards l’ha vista rinascere artisticamente, ma è soprattutto Philip Seymour Hoffman, mai così appesantito e affannato, a risplendere con una performance crepuscolare e fisicissima degna dell’Al Pacino degli anni Novanta.
Certo, siamo pur sempre nell’ambito di un onesto prodotto mainstream con poche particolari pretese e a tratti inamidato, alcune sbavature si notano (in primis, l’effettivo protagonista Yssa, che il russo Grigoriy Dobrygin interpreta senza mai alzare nemmeno un sopracciglio) e la localizzazione amburghese, fondamentale sulla pagina scritta, non lascia il segno e non assurge mai, come invece accadeva alla Londra de La talpa, a vero personaggio di primo piano come vorrebbe. Restano però due ore abbondanti di spettacolo intelligente e ricco di sfumature, nella speranza che Corbijn ritrovi un tocco più personale con la sua imminente pellicola sul fotografo Dennis Stock.
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