Gran brutta storia vivere nel selvaggio West se hai poco coraggio. Se non sei nemmeno particolarmente abile con le pistole, le cose poi vanno anche peggio e il giovane pastore Albert Stark (Seth MacFarlane) non è né coraggioso né capace a sparare. In compenso è romantico e brillante, due qualità che nel selvaggio West non vanno proprio per la maggiore. Ne è consapevole la sua fidanzata Louise (Amanda Seyfried) che lo lascia per un altro uomo in seguito a un duello a cui Albert si rifiuta di partecipare. E ne è consapevole lo stesso Albert che decide di abbandonare Old Stamp, Arizona, per tentare la fortuna a San Francisco.
L’arrivo in città della bella e misteriosa Anna (Charlize Theron) ritarda questa partenza e sconvolge la già complicata vita di Albert in modi che il pover’uomo mai si sarebbe aspettato perché Anna, in realtà, è la moglie del temutissimo bandito Clinch Leatherwood (Liam Neeson) ed innamorarsi di una donna così non è una di quelle cose che, nel selvaggio West, garantiscano una vecchiaia particolarmente serena.
L’enfant terrible di Hollywood Seth MacFarlane, già creatore dei mai troppo lodati Griffin, torna alla regia dopo il successo di Ted e il trionfo della sua conduzione dell’ultima cerimonia degli Oscar e, per non farsi mancar nulla, questa volta ci mette anche la faccia, interpretando il ruolo principale di questa perfetta macchina da risate. E’ talmente sicuro dei propri mezzi MacFarlane che stavolta fa le cose ancora più in grande, a fronte anche di un budget che gli permette location e tecniche di ripresa di assoluto livello e un cast di primissimo ordine, composto da attori generalmente poco inclini ai toni leggeri e che qui invece sembrano (soprattutto Charlize Theron) divertirsi moltissimo.
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Anche da un punto di vista puramente narrativo il tiro è più alto rispetto a quel Ted che, pur essendo una commedia gradevolissima, restava pur sempre un campionario di siparietti politicamente scorretti, laddove invece Un milione di modi per morire nel West appare opera ben più compiuta e strutturalmente fluida.
Ben lungi dal fare una parodia del western in senso stretto, MacFarlane piega il genere in maniera funzionale ai propri scopi e finisce col produrre un vero western, chiaramente divertentissimo, allo stesso modo in cui Tropic Thunder di Ben Stiller era un film di guerra o Facciamola finita di Evan Goldberg e Seth Rogen un film apocalittico.
Non c’è più spazio per la parodia à la Mel Brooks a Hollywood e il primo ad essersene accorto forse è stato proprio Quentin Tarantino, pioniere indiscusso di una nuova generazione di cineasti per i quali il confine tra omaggio e rielaborazione non è più individuabile in maniera netta, che MacFarlane tra l’altro cita, in maniera inaspettata e geniale, sui titoli di coda di questo film.
C’è una lucidità davvero rara nel modo in cui l’autore rimastica gli stereotipi più abusati di un genere dato troppo spesso per spacciato.
E poi c’è l’umorismo anarchico, sboccato, privo di filtri, contro tutto e tutti (si va dalla religione alle minoranze etniche, passando per la medicina alternativa e le devianze sessuali) a cui già iGriffin ci hanno da tempo abituato e che, anche in certe sue derive più scatologiche, riesce a non esser mai fine a se stesso, in una sintesi perfetta tra la cattiveria dei Farrelly che furono e l’esistenzialismo indie di Judd Apatow.
Il pregio maggiore di Un milione di modi per morire nel West risiede, in buona sostanza, nel suo non rallentare mai, giocandosi carte scorrette anche quando sembra che la storia stia andando a parare verso lidi più convenzionali, e nella generosità con cui dispensa risate e citazioni per quasi due ore ininterrotte.
E’ un film talmente divertente che non si limita alle semplici battute, ma dissemina segni anche negli angoli dello schermo, quasi come se ci fosse troppa roba da infilare tutta in un solo film.
E, quando il film finisce, un po’ addirittura dispiace.
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