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Con Turner Mike Leigh affronta la biografia del celebre pittore britannico, innestandola di humour e indirizzandola verso una riflessione sul sublime e il ridicolo, ma il risultato è affetto da un eccesso di reiterazione.

Il senso di Mike Leigh per il biopic

L’ultimo quarto di vita di Joseph Mallord William Turner (Timothy Spall), pittore e incisore inglese nato a Londra nel 1775 e divenuto uno dei maggiori esponenti del movimento romantico.

Non è facile tentare di rinnovare un genere per sua natura così d’antan come il biopic, certo ci sono stati casi eclatanti come I’m Not There di Todd Haynes, dedicato allo sfuggente e metamorfico Bob Dylan o Last Days di Gus Van Sant sugli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, ma quando il mostro sacro preso in esame è un po’ più agée e molto meno pop, la questione si fa più spinosa. Deve essere stato proprio questo uno degli interrogativi che ha maggiormente tormentato Mike Leigh, quando ha deciso di trasporre sullo schermo la vita e le opere di J.M.W. Turner, tra i più celebri pittori del Regno Unito.

Con Turner, in concorso a Cannes 2014, il regista di Happy Go Lucky e Another Year torna dunque ad affrontare una biografia, come già avvenuto nel delirante Topsy Turvy, dedicato a Gilbert & Sullivan e nel Leone d’Oro Il segreto di Vera Drake, ma questa volta traspare con lampante evidenza dallo schermo quanto l’autore abbia lottato con tutte le proprie forze per cercare di scardinare i codici ben consolidati del biopic, attraverso l’arma segreta – e, come vulgata vuole, tipicamente britannica – dello humour.

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Protagonista è l’attore feticcio di Leigh, Timothy Spall, nei panni appunto del pittore noto per la sua resa suggestiva dei fenomeni atmosferici e qui immortalato prevalentemente nei suoi momenti più quotidiani, comprese la ricerca sul campo (tra paesaggi mozzafiato e perigliose tempeste) e una ruvida attività sessuale senile, divisa tra la relazione saltuaria con la sua domestica e quello con una coriacea ostessa.
Pop dunque in un certo senso lo è Turner, specie nei suoi bozzetti di una varia umanità proletaria, improntati alla ricerca costante di un realismo senza fronzoli, schietto e un po’ volgare, capace di porre in luce, come spesso accade nei film dell’autore britannico, anche gli aspetti più sgradevoli dei personaggi, tra sporcizia, difetti fisici più o meno evidenti e volti segnati dal tempo o dalla malattia. In questa fenomenologia del quotidiano si perde però il disegno d’insieme e l’autore riporta alla luce la sua pedanteria estrema, quasi entomologica, già presente, seppur in forme differenti, nei due precedenti film biografici succitati.

Ecco allora il nostro signor Turner intento a dipingere nel suo atelier, a mescolare i colori, a presenziare alle esposizioni, poi a casa con la servetta bruttina e ricurva, quindi alla locanda con la sua amante e poi il giro ricomincia, ripetendo le medesime situazioni come in un eterno refrain.
Spall da par suo fa il possibile, ma anche la sua performance pare bloccata da una coazione a ripetere inarrestabile: grugnisce, si dedica a qualche exploit lubrico, sputa sulla tela per meglio amalgamare l’impasto cromatico. In questa affannosa ricerca del materico, del basso (l’umano) associato all’alto (l’arte), Leigh ripone forse troppa fiducia, mentre di contro riesce a poi a tratti a scardinare le dinamiche consuete del genere biografico attraverso l’ironia un po’ cinica e bara del suo protagonista, che contribuisce a rendere Turner un prodotto piuttosto insolito, spiazzante e in fondo moderno, specie considerato il fatto che si tratta di un film “in costume”.
La sapida ironia del Turner incarnato da Timothy Spall non è poi in fondo altro che l’espressione dell’autoironia del regista che, proprio come succede in una scena chiave del film, sembra chiedersi continuamente, a proposito del suo film (come dell’arte in generale): sarà sublime o ridicolo?

[Thank you, Quinlan!]

 

Timothy Spall e Mike Leigh sul set di Turner

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