Operazione vintage per Guy Ritchie che con Operazione U.N.C.L.E. traspone sul grande schermo la serie Tv anni ’60 Organizzazione U.N.C.L.E. realizzando un pilot– lungometraggio manierista andante, senza brio.
Le buone maniere
Negli anni in cui la Guerra Fredda raggiunge il suo apice, l’agente della CIA Napoleon Solo e quello del KGB Illya Kuryakin sono costretti a mettere da parte le ostilità e allearsi per eliminare una misteriosa organizzazione criminale internazionale. Il loro unico aggancio è la figlia di uno scienziato tedesco scomparso, la sola chiave per infiltrarsi nell’organizzazione e prevenire una catastrofe mondiale.
“È il solito rituale” declamavano i Righeira in L’estate sta finendo, indimenticabile hit del 1985 che celebrava la chiusura degli ombrelloni sui litorali italici, evento vagamente malinconico, ma portatore di gioia ed euforia nell’animo degli esercenti nostrani pronti, allora come oggi, a scodellarci la nuova stagione cinematografica. Toccherà a breve – tra gli altri – a Operazione U.N.C.L.E. di Guy Ritchie dare inizio alle danze, con una spy story ambientata in tempo di guerra fredda, munita di bomba atomica, cameratismo sovietico-statunitense, muro di Berlino, auto rombanti, scazzottate, location “esotiche”, belle donne e gadget tecnologici d’antan. Insomma “il solito rituale” è apparecchiato per l’effimera gioia dello spettatore settembrino e, un po’ c’era da scommetterci; laddove i già citati Righeira lamentavano il fatto che con il passare di un’altra estate stavano “diventando grandi”, la stessa cosa non si può dire per Guy Ritchie, regista-bambino animato da un immutabile spirito ludico.
Tratto dalla serie Tv anni ’60 nota dalle nostre parti come Organizzazione U.N.C.L.E., il film vede unirsi l’agente della CIA Napoleon Solo (Henry Cavill) e quello del KGB Illya Kuryakin (Armie Hammer) nell’ardua missione di recuperare un ordigno nucleare e il suo assemblatore. Ad affiancarli sarà l’abile meccanico della Germania Est Gaby Teller (Alicia Vikander), l’esca perfetta per l’operazione, dal momento che è figlia proprio dello scienziato bombarolo ora misteriosamente scomparso.
Tutto scorre rapido in Operazione U.N.C.L.E.: ecco rifulgere sul grande schermo abiti e automobili d’epoca, hotel lussuosi, bionde dark lady e ammalianti location (terrazze panoramiche romane, scogliere ischitane e lo splendido palazzo Farnese di Caprarola fanno la loro notevole figura), mentre il ritmo della vicenda trae origine da un montaggio frenetico appaiato all’opportuna selezione musicale d’epoca.
Ma, nella sua ricerca ansiogena di un ritmo non accompagnato né da una volontà di rinnovamento né da precipua identità stilistica, Guy Ritchie, oltre a risultare naïf e bambinesco, inizia a rivelarsi alquanto paludato, già vecchio nel suo afflato giovanilistico anni ’90 post-manierista e post-postmoderno. L’aspetto più interessante e al tempo stesso autolesionista della pellicola poi, è il fatto che sia improntata al continuo smascheramento del suo stesso, oliato meccanismo. L’azione è infatti mostrata sempre in medias res e le sue scaturigini ci vengono poi rivelate in flashback strutturati come sequenze a episodi, figli già vecchi di una nouvelle vague francese il cui spirito è oramai reso esangue da decadi di citazionismo sfrenato.
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Se infatti ci ritroviamo ad osservare, senza saperne la ragione, uno dei due protagonisti in fuga da un drappello di cani rabbiosi, non riusciamo proprio a provare un reale coinvolgimento, dato che il momento della scoperta dell’intruso da parte delle bestiole ci è stato precluso agli occhi. Poco importa dunque che il “mistero” ci venga svelato di lì a breve, specie se questo meccanismo à rebours ci è stato già mostrato in precedenza e lo rivedremo, nel corso del film, altre innumerevoli volte. Niente suspense hitchcockiana dunque in Operazione U.N.C.L.E., solo tante e intermittenti sorprese, accompagnate da frammentati disvelamenti. Tutto ciò non concorre poi di certo a produrre un’identificazione con i protagonisti, complici i volti immoti dei due protagonisti, ma è anche vero che a Ritchie probabilmente i ruoli a tutto tondo non interessano, preferisce lavorare sullo status iconico (o sul cliché) dei suoi personaggi, mostrandoci quanto l’americano sia spavaldo, elegante e sciupafemmine, mentre il sovietico è serioso, sobrio e sessualmente morigerato.
Si fanno sentire poi, in tutta la loro verbosità, i numerosi “spiegoni” che costellano la pellicola, con personaggi spesso intenti a rievocare qualche evento del loro passato, sia esso fondamentale o meno. E non può non destare una certa tediosa delusione scoprire che tutto il caso spionistico qui in esame è solo un destrutturato McGuffin per mostrarci il nascere di una squadra d’azione (la U.N.C.L.E. del titolo) pronta ora ad affrontare nuove avventure. Cosa che rende l’intero film una sorta di pilot per un franchise cinematografico a venire.
Ma non ci si annoia certo in Operazione U.N.C.L.E., anche se il ritmo dell’azione e quello dei dialoghi sono così evidentemente frutto di un mero, rapido montaggio. L’intero film è stato probabilmente costruito in fase di post-produzione, dato che mancava di una sceneggiatura ben strutturata e di personaggi dotati di una qualche personalità. Insomma se la sostanza latita, meglio concentrarsi sulla bella – o perlomeno gradevole – forma. E in tal senso, non poteva certo mancare un topos classico del cinema pop anni ’60: lo split screen. Dato che Brian De Palma – forse oramai l’ultimo manierista meritevole di tale epiteto – ha già detto tutto nel suo cinema sull’argomento, ecco che Guy Ritchie, dopo aver diviso e moltiplicato l’immagine, si diletta con il bordo che scompare. Un po’ poco per infondere nuova vita a un vecchio espediente, utilizzato solo perché ciò andava fatto, quasi a voler andare incontro alle aspettative di uno spettatore che si accontenta di essere intrattenuto ma non necessita (o non merita, dipende dai punti di vista) di venire anche stimolato da quel che osserva.
La colpa principale di Guy Ritchie è d’altronde quella di aderire ciecamente a una poetica postmoderna che già da qualche anno ha mostrato la corda, un simulacro inerte sempre pronto ad un opportuno risveglio, ma che in questo caso viene agitato a mo’ di vessillo un po’ a casaccio, come una bambola gonfiabile stremata dal troppo uso.
Ma l’autore di Snatch e Lock & Stock è fatto così e, nonostante la riuscita parentesi della saga di Sherlock Holmes, torna ora a proporsi sul mercato e allo spettatore quale assemblatore rapido e incolore di suggestioni visive gratuite, fautore di un cinema mordi e fuggi che non lascia il segno, solo una scia luminosa di lucine colorate e l’incolmabile nostalgia per un cinema del passato, che tanto – lo sa bene anche lui – non torna più.
[Thank you, Quinlan!]
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