Complesso e stratificato, più innovativo di quanto non possa apparire a prima vista, Oceania è probabilmente il miglior prodotto Disney da diversi anni a questa parte, un felice esempio di convivenza di passato e futuro per il colosso americano. Vaiana è la giovane principessa di una piccola isola del Pacifico meridionale, che fin da piccola ha sempre sentito il richiamo irresistibile del mare. Da quando il semidio Maui ha rubato il cuore di Te Fiti, madre di tutte le isole, nel tentativo di penetrare il segreto della vita, il mondo esterno è diventato tuttavia un luogo pericoloso, infestato dalla presenza del demone del fuoco Te Kà.

Malgrado suo padre le abbia proibito di superare la barriera corallina del Reef, Vaiana decide un giorno di mettersi alla ricerca di Maui, per convincerlo a restituire il cuore di Te Fiti e riuscire così a liberare il mondo dalla presenza del demone…

Se è vero che la produzione Disney, nel corso degli ultimi anni, è sembrata prevalentemente tesa alla (ri)scoperta della classicità, tra principesse eroine (Rapunzel, Frozen) e nuovi animali antropomorfi (Zootropolis) è anche vero che la sempre più presente impronta di John Lasseter è sembrata dare, alla produzione della Casa del Topo, un valore aggiunto non sempre palese, ma costantemente avvertibile sottotraccia tra le pieghe delle storie raccontate. Un’impronta che non si rivela assente neanche da Oceania, secondo film Disney del 2016 e titolo scelto per rappresentare il colosso americano durante le festività natalizie. Una scelta, quella in favore del film di Ron Clements e John Musker, più rischiosa di quanto non potrebbe apparire a prima vista: perché la storia della principessa Vaiana (Moana in originale: non torneremo qui sull’ampiamente dibattuto cambio di nome, e di titolo), la sua missione in difesa del suo mondo, che è anche esplorazione e scoperta di sé, presentano importanti elementi di novità, se non addirittura di rottura, sotto la patina di classicità che li ricopre. Elementi che, pur a una visione superficiale, emergono con sufficiente chiarezza dietro al rutilante mood avventuroso del film.

Clements e Musker, già protagonisti della fase Disney a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90 (La sirenetta e Aladdin tra i loro titoli più noti), confezionano una storia che è innanzitutto racconto di viaggio e (tras)formazione, fortemente centrata su una ricerca che è anche e soprattutto costruzione identitaria. Da rimarcare, qui, non è tanto il fatto che un personaggio femminile assurga al ruolo di protagonista (elemento tutt’altro che nuovo per le storie Disney); quanto, piuttosto, il carattere sfaccettato e nient’affatto prevedibile dell’eroina, costruita in modo da rifuggire intelligentemente dagli stereotipi (anche a quelli della più classica principessa dell’animazione occidentale).

Nel viaggio di Vaiana, superficialmente leggibile come racconto di crescita e presa di coscienza (che di tale topos letterario attraversa tutte le fasi), si può riscontrare il portato di norme sociali (frutto di un evidente e attento lavoro di ricerca) solo apparentemente cristallizzate, in realtà colte nel film come elemento magmatico, stratificatosi attraverso la logica tutta umana (e culturale) dell’adattamento. In un blockbuster disneyiano, destinato (anche in virtù della sua collocazione temporale) ad un pubblico il più ampio possibile, irrompe così un inedito elemento antropologico, concretizzato anche in un’attenta disamina della società rappresentata e dei suoi miti. Un elemento che traccia un trait d’union (l’ennesimo, ma mai così evidente) con l’animazione orientale, in primis con le tematiche predilette dallo Studio Ghibli.

Intelligentemente stratificato, forte di una confezione atta a renderlo il più possibile appetibile per il “suo” target natalizio, Oceania presenta, in misura forse ancor maggiore rispetto alle ultime opere, il rivestimento e la patina esterna del più classico prodotto Disney. Gli inserti cantati, presenti in lungo e in largo nel corso della storia (ma quasi sempre funzionali alla progressione narrativa, mai invadenti), così come l’humour e la forte presenza delle tematiche familiari, urlano un’aderenza al canone che, nei suoi elementi più manifesti, non viene mai messa in discussione. Il lavoro di erosione (o meglio, di svecchiamento) della tradizione, viene semmai operato più a fondo, restando celato nelle pieghe del racconto, in momenti di revisione critica ravvisabili a un esame appena più attento.

Non è un caso, di fatto, l’assenza di qualsiasi elemento romantico nel viaggio della protagonista, così come non è un caso l’inedita svolta (con sottesa morale) che la trama assume nel finale, durante il confronto con il villain. L’humour targato Disney si colora persino, a tratti, di una componente smitizzante e metacinematografica (ne è esempio l’apparentemente innocua sequenza post-credits) che sembra più che mai consapevole della storia della casa americana e delle sue istanze di rinnovamento. Si potrebbe persino tracciare un parallelo (forse azzardato: ma il compito della critica è anche questo) tra l’opera di rottura e svecchiamento/recupero delle tradizioni portata avanti dalla protagonista, e quella di rinnovamento del canone espressa dal film.

Forte di una sopraffina fattura tecnica, sorprendentemente equilibrato nella fusione del registro epico/fiabesco con un umorismo che non si fa mai ricerca della gag decontestualizzata, Oceania esprime un potere affabulatorio che da anni sembrava sacrificato nelle opere Disney, innervandolo di una componente di autentica ricerca antropologica, che non dà mai l’impressione di scivolare nell’esotismo a buon mercato. L’attenta delineazione del contesto, unita all’intelligente descrizione della crescita della protagonista (che utilizza al meglio il potenziale delle parti cantate) concorrono felicemente alla costruzione di un mondo di cui si assimilano presto (e volentieri) norme e contorni.

Poco importa, in questo senso, se qualche personaggio secondario (il maialino della protagonista) appaia più elemento ornativo che altro, o se l’equilibrio narrativo si spezza a tratti in una presenza di alcuni elementi (l’acqua quale personaggio senziente) eccessivamente reiterata. Il quadro generale, grazie alla capacità della sceneggiatura di innestare le strutture del racconto di viaggio e formazione su un accattivante (e credibile) tessuto mitologico, si rivela lucido e di indubbia presa. Trasversale nel target, ma senza la ricerca di facili scorciatoie.

[Thank you, Quinlan!]

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