PopulaireQuando si dice la sorpresa.

Mentre il cinema comico americano si lascia trascinare dall’ondata paraconservatrice e finto anarcoide targata Judd Apatow, riportando in voga la sciatteria piccoloborghese e il moralismo di ritorno di numi tutelari men che modesti come John Hughes, dall’altra parte del mondo un giovane regista esordiente con qualche anno di accademia in più sul curriculum decide di rinfrescare la memoria alle platee di tutto il mondo sulla vera età dell’oro del cinema brillante statunitense. E’ solo con l’intervento del francese Regis Roinsard che torna a splendere, in una sentita, affettuosa operazione revivalistica, l’atmosfera della grande commedia tradizionale che fu, quella dei dialoghi dal ritmo mitragliante e della battaglia fra i sessi, dell’equilibrio perfetto raggiunto fra i canoni screwball e la loro evoluzione sofisticata, dello star system e dei metodi sempre più creativi per aggirare le restrizioni censorie imposte dal Codice Hays.

Ideale seguito teorico di un percorso nostalgico inaugurato due anni fa dal fortunato The Artist, Tutti pazzi per Rose (inqualificabile traduzione italiana del semplice ed esplicativo Populaire) ingloba nel suo bagaglio citazionistico gli ingredienti e i codici più collaudati di vent’anni di scuola d’Oltreoceano, dalla allusività impertinente di McCarey alla verve indiavolata di Howard Hawks, dalla poesia romantica di Billy Wilder alla coloratissima facezia di Stanley Donen, che resta con i suoi Cenerentola a Parigi e Il giuoco del pigiama il più ravvisabile punto di riferimento.

L’evoluzione sentimentale e l’ascesa di Rose Pamphyle (Deborah François, scoperta dei fratelli Dardenne), giovane segretaria dell’Alta Normandia della fine degli anni cinquanta ricalcano in tutto e per tutto i ritratti delle icone femminili dell’epoca, dalla vivacità svampita di Doris Day all’eleganza virginale di Audrey Hepburn (coda di cavallo compresa), senza dimenticare la fragilità ed il fascino di Shirley MacLaine, mentre il grugno baldanzoso e lo sciovinismo del suo datore di lavoro, l’assicuratore Louis Echard (un Romain Duris al suo assoluto acme testosteronico), riportano contemporaneamente al ghigno furbesco di James Cagney ed alla finezza angelica di Montgomery Clift.

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Tutti pazzi per Rose è una pellicola quindi strettamente legata ai suoi illustri precedenti e ne ripete senza falsi pudori, lungo una struttura alla My Fair Lady, la sostanziale naivete – lieto fine compreso – e la fattura, caratterizzata da una luce barocca alla Douglas Sirk e una leggera insaturazione dei toni da casa di bambola del Technicolor, azzardando solo, idea impensabile per la morale del tempo, una scena erotica che inizia citando castamente La donna che visse due volte per poi, con la sua alternanza di filtri, concludersi come un’ipotetica premessa della celebre sequenza espunta da Il disprezzo di Jean-Luc Godard.

Il resto, rigenerante come una vecchia abitudine ripresa da poco, adotta il medesimo paradosso messo in pratica dalla follia di Michel Hazanavicius e sfrutta la grazia travolgente e ritemprante del rétro evitando – tanto per citare due opere  affini eppure distantissime – tanto la stucchevolezza feticistica e i pruriti autoriali di 8 donne e un mistero quanto l’evidente mancanza di rispetto nei confronti del materiale di partenza di un disamorato prodotto hollywoodiano come Abbasso l’amore: merito soprattutto di due protagonisti perfettamente aderenti ai loro prototipi, ma anche abili nel far trapelare quel minimo di modernità – evidente, tangibilissima tensione sessuale in primis – necessaria per trasformare i loro personaggi da calchi elementari in plausibili aggiornamenti.

Roinsard, dal canto suo, sfoggia un’invidiabile conoscenza della materia e scongiura leziosità e affettazioni con l’avvedutezza di un mestierante “invisibile” – quale fu il sommo Hawks – e di un professionista che sa di non dover prevaricare il film stesso con eccessi di personalità: così il film scorre con la stessa spiritosa prevedibilità dei suoi archetipi, superficiale e giocoso, ma tutt’altro che sciocco, capace di lasciar trapelare, seguendo la linea filosofica di Jacques Demy, nella magia e nella gentilezza della messinscena un lieve elemento perturbante, come gli incubi della guerra da poco finita ad incombere sulla bolla di sapone del boom economico, che sarà il segnale d’inizio del consumismo sfrenato del decennio successivo.

Il risultato finale sono quindi due ore di intrattenimento godibile e intelligente, che di certo non sarà all’altezza dell’originalità e della profondità delle coeve commedie di Agnes Jaoui o di Pascal Bonitzer – per non parlare dei recenti sviluppi della filmografia di Alain Resnais -, e non tutto brilla in quello che è tutto sommato un inoffensivo esercizio di stile: il cast di contorno, a cominciare da una Berenice Béjo piuttosto sacrificata, se non sprecata, non è altrettanto incisivo, il secondo atto accusa qualche piccola caduta di tono e a volte i rimandi si fanno inutilmente fin troppo espliciti, come la parete della camera di Rose tappezzata di foto di dive di allora.

Ma in un panorama oltralpino sconfortante dominato dalla grossolanità provincialotta e dalla ruffianeria di facili campioni come Giù al nord, Quasi amici e i loro succedanei di turno, i difetti restano assolutamente veniali e soverchiati da un contagioso senso di delizia che ci avvolge già a titoli di testa conclusi.

E se così come The Artist riuscì a ridestare nello spettatore occasionale una salutare curiosità nei confronti del cinema degli albori, questo Tutti pazzi per Rose già accolto con entusiasmo al Festival Internazionale del Film di Roma 2012sarà in grado di fare lo stesso con i capolavori di metà secolo di cui si riconosce umile erede, beh, allora tanto di guadagnato.

Deborah Francois_Populaire

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