Dopo essere state comprimarie di nuclei familiari prettamente androcentrici, protagoniste indiscusse della terzultima giornata della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia sono madri e sorelle, soprattutto nell’accezione rispettivamente di generatrici di vita e di affiatate fonti di paritetico sostegno reciproco.
Inaugura significativamente il ciclo il filippino Sinapupunan, opera con cui Brillante Mendoza ritorna al Lido riallacciandosi direttamente a quel Lola, film-sorpresa dell’edizione 2009, che fu in nettissima contrapposizione con l’agghiacciante discesa agli inferi di Kinatay, presentato appena appena 4 mesi prima a Cannes e vincitore quasi a sorpresa del Premio per la Regia.
Senza pertanto aggirarsi per i meandri più squallidi di Manila (ricordiamo anche il lercissimo cinema porno di Serbis) e per i lati più abominevoli del comportamento umano, Mendoza si confronta quest’anno con una storia gentile e, sulla carta, a tratti struggente, nella quale una levatrice sterile decide di intraprendere un rassegnato percorso di abnegazione e di sacrificio per permettere finalmente all’amatissimo marito di avere il figlio impossibile da concepire insieme e da lui tanto a lungo desiderato.
Inequivocabilmente, il programma procede, nella sezione Orizzonti, con l’intenso Yema (“madre”, per l’appunto), un’autentica tragedia greca limitata quasi esclusivamente a tre personaggi in campo (più un cadavere e un bebé) e ambientata nella brulla campagna algerina, dove una donna di mezza età, interpretata da Djamila Sahraoui, regista del film, dopo aver sepolto il corpo del figlio Tarik, viene barricata in casa dall’altro figlio Alì, mentre questi entra ed esce dagli attigui campi di battaglia in cui guida un gruppo islamista: il soldato lasciato di guardia da Alì, insospettabilmente, stringe un forte legame con la donna e, insieme alla comparsa del neonato di lei, farà saltare quell’equilibrio precario fra i personaggi fatto di intimidazione e sopraffazione.
Si rimane in Orizzonti ma ci si sposta in Italia con il nuovo progetto del sardo Salvatore Mereu, lo sgargiante e allegro Bellas mariposas, che mette alla porta le buone intenzioni didattiche, ma gli esiti modesti, del precedente Tajabone, appesantito dalla sua contestualizzazione e dalla sua destinazione scolastica, e si affida ad un racconto del romanziere Sergio Atzeni per porsi nuovamente (e assai più liberamente) ad altezza di sguardo di un gruppo di adolescenti appartenenti al sottoproletariato della periferia cagliaritana, con un linguaggio vivacissimo, irresistibile e liberatoriamente scurrile – specie se si considera la giovane età dei protagonisti – vicino, per alcuni tratti, alla veracità scatenata del primo Paolo Virzì: mescolando lingua sarda e italiano, turpiloquio e adagi, voci off e dialoghi fulminanti, Bellas mariposas, dopo l’esempio, nelle file del Concorso, di E’ stato il figlio, non ha timore di impiegare una dialettica fortemente anomala e il ricorso impavido al politicamente scorretto si prenota già un posto d’onore fra i film di culto del cinema italiano contemporaneo.
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Chiude il trittico di Orizzonti odierno nientemeno che San zimei, ultima iniziativa di uno dei più grandi documentaristi viventi, il cinese Wang Bing, che ancora due anni fa passò scandalosamente sotto silenzio con lo splendido esordio nella fiction di Jiabiangou – ovvero Il fosso -, vero capolavoro di quell’edizione puntualmente escluso dal novero dei vincitori dalla sciaguratissima presidenza di Quentin Tarantino: pur nel suo respiro tutt’altro che corto – “appena” 153′ – la nuova fatica di Bing si distacca dall’inaccessibilità e dalla fluvialità dei suoi lavori precedenti (il precedente Caiyou riji, che illustra senza soste la giornata tipo in un giacimento petrolifero nel deserto del Gobi, da solo tocca le 14 ore e non è serializzato) per concentrarsi sulla minuscola storia di tre piccole sorelle che vivono in stato di semi-abbandono nella regione dello Yunnan, trascorrendo le giornate fra vuote peregrinazioni e saltuari lavori nei campi. San zimei, dopo la chance immeritatamente perduta di due edizioni fa, è finalmente l’occasione giusta per dedicare spazio ed attenzione, seppur tornando nell’ambito del documentario, ad una delle voci più importanti e irrinunciabili della cinematografia asiatica, con la speranza che questa volta clientelismi e ottusità non favoriscano i soliti noti.
Day 10
Alla penultima giornata di Festival, i giochi sembrano chiudersi ancora prima di cominciare, con papabili vincitori impostisi a viva forza nel secondo terzo della manifestazione a rendere quasi superfluo l’epilogo degli ultimi giorni, dove comunque i grandi film non sono mancati.
Il settantatreenne Brian de Palma, senatore – insieme al nostro Marco Bellocchio – prenota virtualmente il Leone speciale per l’insieme dell’opera con il suo ultimo Passion, remake del testamento artistico del francese Alain Corneau, che molti ricorderanno per Tutte le mattine del mondo e Codice d’onore: la crescente rivalità fra la ricca manager di una multinazionale (Rachel McAdams) e la sua più remissiva assistente (Noomi Rapace) si trasforma gradualmente in un morboso gioco al massacro, che l’autore di The Untouchables, personalizzando l’assunto e modificando lo svolgimento lineare della pellicola di partenza, trasformerà in un autentico whodunit fatto delle consuete variazioni sul tema del doppio e di stilettate omoerotiche sulla falsariga del suo Femme fatale.
Si ritorna alla Settimana della critica per un ritratto al femminile decisamente di altro tipo, dove la forza di una donna non si misura con incarichi dirigenziali e bulimia sessuale, ma con la costanza dell’idealismo e con la voglia contagiosa di cambiare in meglio la società armati solo di entusiasmo e di spirito di iniziativa: l’eponima protagonista del cinese Lotus è un’insegnante venticinquenne di belle speranze, fieramente ma anche irresponsabilmente anticonformista, guidata dalla stessa positività della Poppy del mikeleighiano Happy-go-lucky. Ma laddove l’eroina della pellicola inglese poteva contare sulla società relativamente democratica d’oltremanica, il suo equivalente asiatico deve necessariamente scontrarsi con il muro di gomma del post-maoismo, che con le sue censure e le sue soverchianti ingerenti sulla vita pubblica e privata dei suoi cittadini, finirà per mettere duramente alla prova le sicurezze e i desideri di questa fragile venticinquenne.
La sezione Orizzonti schiera invece il russo Aleksej Balabanov e il suo ultimo Ja tozhe hochu, che inscena un universo non troppo distante dalle suggestioni mistiche dei fratelli Strugatsky e dei loro romanzi fantascientifici (Stalker, base dell’omonimo capolavoro di Andrej Tarkovskij, su tutti), accompagnando cinque variegati protagonisti alla ricerca del Campanile della Felicità, sorta di portale intriso di energia atomica posto fra San Pietroburgo e Uglich misteriosamente capace di teletrasportare chi vi si avvicina dovunque egli o ella desideri. Le avventure della comitiva si trasformano quindi in un fantomatico viaggio della speranza dove ognuno di loro spera di essere “prescelto” e di godere dei privilegi di questo prodigio.
Conclude il programma il vincitore del Label Europa Cinemas – che in quanto tale potrà godere di una distribuzione ufficiale patrocinata dall’Unione Europea – e, in sostanza, delle Giornate degli Autori, il bretone Crawl, realizzato dal francese Hervé Lasgouttes, storia di quotidiana sofferenza in cui convergono le vicende di due ragazze di estrazione sociale opposta ma dal destino comune: Gwen è una giovane sottoproletaria che lavora in un conservificio di pesce e coltiva un sogno da nuotatrice di lunga distanza, legata sentimentalmente a un ladruncolo di buon cuore Martin, mentre la sorella di quest’ultimo, la quarantenne Corinne, lavora come infermiera ed è anche la moglie del direttore del conservificio presso cui è impiegata Gwen. Entrambe rimangono improvvisamente incinta dei loro compagni e sarà soltanto una lunga catena di quotidiane disgrazie e di piccoli fraintendimenti che, pur con qualche acciacco, finirà per risolversi per il meglio la vita di tutti.
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