Se Hunger narrava della reazione di una generazione di giovani irlandesi all’assoggettamento nei confronti della corona britannica, e Shame degli effetti della patologica dipendenza dal sesso negli individui del nostro tempo, anche il terzo lungometraggio dello stimato artista londinese Steve McQueen (1969), 12 Years a Slave, si occupa di oppressione e di soggezione, nelle sue forme più archetipe e storicamente disumane, quelle dello schiavismo. Un tema ancora piuttosto attuale per le organizzazioni umanitarie, e una piaga tuttora diffusa in numerose società – non sempre le più arretrate – del mondo, nonostante l’impegno costante della comunità internazionale per eliminarlo da ogni angolo del pianeta.
12 anni schiavo (presentato in Italia dal 20 febbraio), illustra una vicenda americana di circa 170 anni fa, la storia vera e straordinaria di Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), pubblicata in volume nel 1853, non senza scalpore. Si tratta dell’autobiografia di un afroamericano nato libero nello Stato di New York, ma successivamente raggirato, brutalmente asservito, e tradotto in Louisiana, dove solo dopo una travagliata dozzina di anni riconquistò la libertà. Prima di quella drammatica esperienza Mr. Northup era un rispettabile cittadino di Saratoga Springs, violinista di professione, ottimamente istruito, coniugato con Anne, e padre di due bambini, Margaret e Alonzo, che dovette abbandonare improvvisamente in quanto vittima di un rapimento a Washington nel 1841.
Insieme a un altro gruppo di sventurati l’uomo fu presto deportato come schiavo nelle piantagioni del Sud, dove venne ribattezzato Platt, costretto ad assistere e a subire sevizie inaudite, venduto come valente tuttofare a un paio di padroni, chi più, chi meno crudele, sopravvisse grazie alla sua pazienza e al suo spirito di sopportazione, all’intelligenza e alla capacità di adattamento a ogni situazione, ma principalmente rimase sempre aggrappato alla speranza di rivedere i propri cari.
La sceneggiatura di John Ridley ci trasporta dunque nell’inferno personale del protagonista, nel quale egli resiste, con dignità e compostezza, senza palesi manifestazioni di dolore o d’odio nei confronti dei suoi aguzzini, che si alternano sulla scena con il proprio peculiare campionario di violenze. Ecco allora le angherie dello spregiudicato mercante di schiavi Theophilus Freeman (Paul Giamatti), o la cattiveria gratuita di John Tibeats (Paul Dano), un carpentiere che è solito picchiare e dileggiare i servitori neri con una canzoncina di scherno. E inoltre, la telecamera ci presenta la detestabile ambiguità di William Ford (Benedict Curmberbatch), latifondista dalle maniere gentili, che obbliga i propri schiavi all’ascolto della Bibbia, dopo aver cinicamente ignorato la disperazione di Eliza (Adepero Oduye), straziata dalla separazione forzata dai figlioletti.
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Ma è Edwin Epps (Michael Fassbender, l’attore feticcio del regista britannico) a guadagnarsi il titolo di antagonista principale con una condotta di rara perfidia. Epps incarna lo schiavista per antonomasia, dato che in Louisiana viene tuttora ricordato come esempio di depravazione e malvagità. Rozzo, instabile, spesso ubriaco, il proprietario terriero tratta con spietata durezza Platt / Northup, nel quale avverte una naturale, insopportabile superiorità, ma è ancor più feroce nei confronti di Patsey (Lupita Nyong’o), la schiava più efficiente nella raccolta del cotone, con cui Epps intrattiene una rabbiosa e perversa relazione erotica, mal digerita dalla moglie Harriet (Alfre Woodard), che sfoga assai pesantemente sulla povera ragazza la sua frustrazione.
Non esiste alcuna compassione in questi individui abbrutiti dall’intolleranza e giustificati da una lettura alquanto personale – e traviata – del Vecchio Testamento. L’unica possibilità di salvezza per Platt risiederà nell’incontro casuale con l’abolizionista canadese Samuel Bass (Brad Pitt), il quale denuncerà il suo stato e l’aiuterà a recuperare la libertà e la dignità. Nel gennaio del 1853, Solomon Northup riabbraccerà i familiari e, come illustrano i titoli di coda, inizierà una lunga, seppur vana, battaglia legale contro i suoi rapitori. In quello stesso anno fu pubblicato il suo memoriale che divenne subito un best seller, e contribuì enormemente a orientare l’opinione pubblica degli USA (specialmente al Nord) in senso antischiavista. L’abolizione della schiavitù verrà realizzata di lì a poco, al termine della Guerra Civile (1861-1865) dal Presidente Abramo Lincoln, con l’approvazione del XIII emendamento alla Costituzione.
Da allora la battaglia per la parità dei diritti della comunità nera non è cessata, anche oggi che è proprio un presidente afroamericano a guidare la nazione più potente del mondo. E la stessa cinematografia avverte l’esigenza di approfondire le conoscenze rispetto a questo problema mai compiutamente affrontato dalla cultura degli Stati Uniti d’America. La penuria di titoli sull’argomento ci rammenta tuttavia gli sforzi recenti di Quentin Tarantino (Django Unchained) e di Steven Spielberg (Lincoln), il quale va ricordato anche per pellicole di grande sensibilità come Il colore viola e, soprattutto, Amistad, in cui mosse i primi passi come interprete proprio Chiwetel Ejiofor, lì nella parte del guardiamarina James Covey, ossia di colui che tradusse per la corte, durante il processo che occupa buona parte del dramma, le ragioni degli schiavi ammutinati.
Un ottimo esordio quello dell’attore di origine nigeriana (già ammirato in American Gangster, I figli degli uomini, Inside Man…), specialmente se si considera che oggi si trova in prima fila a contendersi la statuetta dorata di Hollywood con uno stuolo di agguerritissimi concorrenti come Leonardo Di Caprio e Bruce Dern, Christian Bale e Matthew McConaughey. In tutto sono nove le candidature all’Oscar ottenute da 12 anni schiavo, un’opera che è già considerata come una delle pellicole paradigmatiche del cinema sugli schiavi. Più di qualcuno, però, ha storto la bocca rispetto alla svolta “classica” operata da Steve McQueen, utilizzando tale aggettivo in un’accezione non del tutto positiva.
Ma se l’impianto “spielberghiano” tradisce l’impostazione romanzesca e tradizionale del film, e se le immagini non paiono sorrette stavolta da quell’assidua ricerca di inquadrature originali e scabre, come nelle opere precedenti, la messinscena riesce ugualmente a eccellere, grazie alla cura e alla perizia artigiana del regista, in numerose scene in cui il pathos e la penombra, più ancora che le sequenze di cruda violenza, evidenziano il lirismo e il profluvio di emozioni della vicenda, peraltro ben commentata dalle musiche del solito Hans Zimmer.
12 anni schiavo è un racconto universale, epico e commovente, un doloroso percorso di sottomissione, di resistenza negli inferi della schiavitù; è una sorta di incubo pirandelliano (o kafkiano, se si preferisce), che intende richiamare alla mente gli effetti devastanti di una tragedia che ha interessato la storia americana, e quella di una buona parte dell’umanità, da circa 500 anni, e non può dirsi ancora conclusa. L’orrore rappresentato dall’insulto ai danni dei corpi e delle anime martirizzate, come in certa iconografia cristiana, è il mezzo, non il fine, in cui l’artista McQueen esprime il suo disagio di essere umano. A tale proposito, risulta emblematica la scena in cui il protagonista è sottoposto al supplizio, appeso per ore e ore a un albero con una corda al collo, lasciato in precario equilibrio sulla punta dei piedi, disperatamente puntati a terra per evitare l’asfissia. Quest’immagine insistita e nauseante costituisce un’accusa, e nel contempo, una dichiarazione di responsabilità, un’impietosa allegoria della condizione umana, sempre in procinto di soffocare, di “autocaducare”, di immolarsi in una nuova, inutile barbarie…
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