La riapertura delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba è il primo grande successo diplomatico di Papa Francesco, e molti commentatori hanno salutato l’evento entusiasticamente come il grande ritorno della Santa Sede sulla scena internazionale. In realtà, se Papa Francesco ha avuto questo successo, è perché ha potuto raccogliere i frutti di un lavoro che la Chiesa ha fatto a Cuba per oltre cinquanta anni. E dietro ogni successo diplomatico si nasconde un rischio: quello, per la Chiesa, di essere strumentalizzata. È successo così anche per la questione cubana?
La verità è che tutti avevano interesse a utilizzare l’immagine e la popolarità di Papa Francesco per andare oltre la crisi. Barack Obama, spendendo il nome del Papa, potrà dire a chiunque nel Congresso si oppone a questo suo disegno di starsi mettendo contro la posizione del Papa. E Raul Castro potrà sostenere la transizione senza soffrire troppo delle opposizioni interne, forte dell’appoggio di Papa Francesco. In fondo, un po’ di strumentalizzazione fa parte del gioco della diplomazia.
Le trattative per la riapertura dei canali diplomatici sono iniziate da tempo. Quando il presidente USA Barack Obama era venuto in visita da Papa Francesco lo scorso marzo, aveva parlato di questa possibilità. Quei giorni, il dibattito era stato preso in particolare dalla delegazione degli indocumentados che aveva cercato di colpire l’attenzione di Papa Francesco perché mettesse i riflettori sulla loro situazione. E di immigrazione, nonché di traffico di esseri umani, si parlava nel comunicato ufficiale che era stato rilasciato al termine dell’incontro, durato 52 minuti.
Papa Francesco aveva certamente dato la disponibilità vaticana a fare da ponte di dialogo. In questi mesi, i contatti, discreti, con le delegazioni di Stati Uniti e Cuba sono stati continui. La Santa Sede è sempre stata aggiornata dei progressi dei colloqui, che sono avvenuti soprattutto in Canada. Il Papa si è speso in prima persona, inviando due lettere per chiedere la liberazione dei prigionieri politici e offrendo il Vaticano come terreno di mediazione.
Una mediazione gradita anche a Cuba. Raul Castro – da quando è succeduto al fratello Fidel – ha lavorato per una transizione pacifica dal modello comunista, chiuso al mondo e residuo della Guerra Fredda – ad una apertura al mondo. Una transizione favorita dallo straordinario lavoro della Chiesa, che – nonostante la revoluciòn, la persecuzione religiosa, la confisca dei beni per cui non ha mai ricevuto compensazione – non ha mai abbandonato Cuba, né dal punto di vista diplomatico (una nunziatura è sempre stata aperta a Habana) né per quanto riguarda la vicinanza alla popolazione.
Quando il Cardinal Tarcisio Bertone, allora Segretario di Stato, andò a Cuba nel 2008 per celebrare i dieci anni dallo storico viaggio di Giovanni Paolo II, poté prendere nota di questa situazione di apertura. In una conferenza stampa, l’allora Segretario di Stato affermò: “Sembra che si possano aprire porte, perché Raul conosce bene le difficoltà del popolo, le mancanze, le aspirazioni.”
È in questo clima di rinnovata apertura che Benedetto XVI poté fare il suo viaggio apostolico a Cuba nel 2012. Durante il viaggio Raul Castro usò ogni opportunità per mostrare che la revoluciòn voleva stare vicino alla Chiesa. La gente, fedele e devota alla Chiesa Cattolica, ricette il messaggio. Un messaggio di distensione: nonostante siano stremati dall’embargo, c’è fiducia che le cose possano cambiare. Lo stesso Raul, accogliendo il Papa, tenne un discorso di benvenuto che sembrava un comizio: criticò il bloqueo, l’embargo USA, e cercò in qualche modo l’appoggio diplomatico della Chiesa.
Non è un segnale da sottovalutare che il Cardinal Bertone era di nuovo a Cuba le scorse settimane. Un programma fitto e denso di impegni, quello dell’ex segretario di Stato, che in qualche modo è stato il simbolo di questa transizione e di questa presenza costante della Chiesa a Cuba. Il Cardinal Bertone ha rappresentato, con la sua presenza, con i suoi incontri, la continuità diplomatica della Santa Sede.
Un dato che fa riflettere. Perché il successo della Santa Sede sulla questione cubana rappresenta anche l’apice di un lavoro della Santa Sede che è durato cinquanta anni. Papa Francesco ha raccolto i frutti degli sforzi diplomatici portati avanti dai tempi di Giovanni XXIII. Giovanni Paolo II aveva approfittato della nuova situazione causata dal crollo dei regimi comunisti per tentare un approccio diplomatico tutto nuovo, in parte basato su una diplomazia attiva e segreta, e molto basato su un dato nuovo: che la diplomazia non si doveva fare tra gli Stati, ma con i popoli. Da lì, i continui appelli alla riconciliazione tra tutti i cubani, anche gli esuli. Da lì, i discorsi durante il suo viaggio a Cuba nel 1998, tutti centrati sui temi famiglia, giovani, libertà religiosa.
Benedetto XVI aveva ereditato questo approccio diplomatico, e aveva aggiunto un altro tassello: la diplomazia si deve basare sulla verità. Quando chiamò il Cardinal Bertone a fare il Segretario di Stato, e questi si presentò come un “Segretario di Chiesa, più che di Stato”, alcuni commentatori scrissero che la linea di Benedetto XVI era di fare “più Vangelo e meno diplomazia”. Ma l’affermazione era in qualche modo fuorviante. Era dalla verità del Vangelo che derivava l’approccio diplomatico di Benedetto XVI, le due cose non si potevano contrapporre. Si trattava di avere un approccio dialogante, di conversazione con il mondo. Ma fermo nei principi.
Questo è un tema molto attuale. Salutando il successo cubano, alcuni commentatori hanno sottolineato come questo sia un successo dovuto al fatto che la Chiesa ha ripreso un ruolo diplomatico forte, e ha smesso di fare i proclami sui principi. Si è ricordata la politica dei piccoli passi del Cardinal Agostino Casaroli con i Paesi dell’Est (la cosiddetta Ostpolitik) e il concetto di “martirio della pazienza”, ovvero quello di una Chiesa silenziosa e in attesa mentre porta avanti delle relazioni diplomatiche.
Questo approccio risponde piuttosto a criteri diplomatici secolari. Come se la Chiesa cattolica fosse uno Stato come tutti gli altri Stati, che si pone come mediatore quando la situazione è favorevole (non è stato fatto per la situazione in Venezuela, nonostante l’attuale Segretario di Stato, il Cardinal Pietro Parolin, sia stato nunzio lì), cercando di favorire la relazione tra Stati un tempo nemici e ora finalmente amici.
Il vero “martirio della pazienza” è proprio quello di una diplomazia che si basa sul concetto di verità, e non ha paura di proclamarla. Perché è proprio nel momento in cui si proclama con forza la verità che si incorre nelle critiche e nelle accuse.
Lo sa bene Giovanni Paolo II, che subì critiche ferocissime durante la prima parte del suo pontificato. E lo sa bene Benedetto XVI, che proprio per il suo amore di verità è stato continuamente attaccato: la lezione di Ratisbona, le sue dichiarazioni sull’AIDS nella conferenza stampa in aereo verso l’Africa, le sue prese di posizione nette contro la persecuzione dei cristiani e gli attacchi terroristici di matrice religiosa, la sua critica fortissima all’ideologia del gender… in questi e in molti altri casi difficilmente si è andato a vedere cosa volesse dire il Papa realmente. Sono stati piuttosto attaccati i “toni da crociata”, che sono ancora l’argomento preferito del mondo liberal per etichettare un sacerdote, un vescovo, un Papa che mette in luce (con toni e sensibilità diverse) la verità del Vangelo.
Si devono fare grandi lodi alla diplomazia pontificia per aver saputo fare da mediatore nella crisi di Cuba. Ma si deve anche considerare che in questa mediazione c’è stato il rischio della Chiesa di essere strumentalizzata. Si deve anche mettere in luce che c’è stato tutto un lavoro prima, oscuro, che ha posto le fondamenta del successo finale. E si deve sapere che questo lavoro precedente, oscuro, non si basava sull’idea secolare della diplomazia, ma proprio sull’idea cristiana della diplomazia. Ovvero, che la diplomazia serve le persone, non gli Stati. Perché l’agenda internazionale della Santa Sede è il bene comune, non il successo diplomatico. In fondo, la Santa Sede, come stato sovrano, ha superato il concetto di rapporti bilaterali tra gli Stati, e da sempre chiede una maggiore partecipazione all’arena internazionale di tutte le nazioni del mondo.
E forse la soluzione della crisi cubana può portare ad una riflessione più ampia. Durante il Pontificato di Benedetto XVI, gli attacchi più forti al ruolo diplomatico riguardavano il fatto che la Santa Sede avesse perso appeal internazionale, e si fosse come ripiegata su se stessa. Ma erano attacchi che arrivavano invece proprio mentre la Santa Sede stava cambiando il suo approccio sul mondo, stava passo dopo passo abbandonando il rapporto ingombrante con il vicino italiano (che l’Italia strumentalizzava sempre) e stava andando verso un modello di Stato che andasse oltre il modello di Westphalia, secondo la profezia di Giovanni XXIII. La riforma finanziaria della Santa Sede e il dibattito che ne è succeduto; la grande riforma della carità; la riforma del codice penale; l’attenzione per il diritto canonico, e la conseguente scelta dei cardinali; la progressiva internazionalizzazione del collegio cardinalizio; e poi, nel rapporto con il mondo, le pressioni per una riforma del sistema finanziario internazionale e per una riforma delle Nazioni Unite; la profezia della Caritas in Veritate; tutti questi – e molti altri elementi sono lì a dimostrare il nuovo approccio internazionale della Santa Sede.
Con il rischio che la Santa Sede vedesse accresciuta la sua forza morale, i media secolari hanno criticato il nuovo assetto. Ora che Papa Francesco è tornato ad una visione diplomatica ‘vecchio stile’, il mondo secolare può tirare un sospiro di sollievo. E quando Papa Francesco – come è successo al Parlamento Europeo lo scorso 25 novembre – mette in luce anche i temi scomodi, viene semplicemente ignorato dai media e dagli stessi diplomatici.
Sono tutti dati che lasciano riflettere. Questo approccio diplomatico vecchio stile ha portato dei frutti per gli Stati. Ma porterà frutto alla Chiesa?
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