ilnomedelfiglio_locandinaAllegro ma non troppo, malinconico quanto basta, il “gruppo di famiglia in un interno”, pennellato con tocco ora lieve ora feroce dalla regista Francesca Archibugi nel suo ultimo film Il nome del figlio, remake della nota pièce francese Le prénom, si avvale di un magnifico cast d’attori italiani all’apice della maturità artistica ed in stato di grazia. Paolo e Betta Pontecorvo, fratello e sorella, con i rispettivi partner ed un amico di vecchia data, si ritrovano a cena in occasione dell’annunciata gravidanza di Simona, la moglie di Paolo, una strappona di periferia che scrive best-seller piccanti: intorno al nome scelto per il nascituro nasce una discussione che scatenerà una vera e propria sarabanda di ricordi d’infanzia, incomprensioni coniugali, gelosie sopite, insoddisfazioni personali, rivelazioni inaspettate.

Ogni personaggio è tratteggiato ad arte dalla sceneggiatura scritta dalla stessa Archibugi insieme al bravo Francesco Piccolo ed incarna un carattere tipico della nostra bella Italia: Paolo, il figlio svogliato di ricchi imprenditori che, andando male a scuola fin dalle elementari, diventa un rampante e furbo agente immobiliare (un Alessandro Gassman che avvicina i suoi registri attoriali sempre più a quelli del padre);

Betta, l’ago della bilancia, la donna intelligente che ha sempre anteposto la sua felicità a quella dei figli e del marito (Valeria Golino, sguardo liquido e grande ironia, si muove sempre più a suo agio nei ruoli di mamma); Claudio, l’amico musicista che non ha mai rivelato nulla sulla sua vita sentimentale (un Rocco Papaleo simpatico e perfettamente calzante); Sandro, l’intellettuale del gruppo, marito di Betta, professore frustrato e distratto, che inventa compulsivamente twitter di qualità per chattare con altri accademici (nella parte il versatile Luigi Lo Cascio); Simona, la moglie di Paolo, verace e poco raffinata, all’apice del successo col suo romanzo-spazzatura (Micaela Ramazzotti in un ruolo che ben conosce, quello della finta svampita, in realtà portatrice della saggezza popolare).

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“Questo film parla di come amicizia ed amore, se sono profondi, abbiano un valore fondamentale anche se sono tormentati. Il nostro è stato un viaggio con un equipaggio di attori molto generosi, con i quali abbiamo lavorato prima in modo molto meticoloso e pignolo, per lasciare poi spazio all’improvvisazione: credo che in questo modo siamo riusciti a rendere omogenea la cifra recitativa. Nel film, al di là dei conflitti, c’è molto amore”.

Un’orchestra ben suonata, dunque, una stupenda casa a due piani come co-protagonista, con alcuni tocchi di regia in esterni, che rendono il film meno claustrofobico dell’omonimo francese. La Archibugi, dai tempi di Mignon è partita, Il grande cocomero e L’albero delle pere, mantiene il suo stile di sempre, dove dramma e commedia interagiscono e si strizzano l’occhiolino l’un l’altra, descrivendo con maturità ed indulgenza aspetti della società dal di dentro, dal cuore e dalle vite dei protagonisti della storia.

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