Il consueto caravanserraglio di personaggi stravaganti ha popolato Cannes, questa graziosa cittadina della Costa Azzurra, che salta da una media di 40.000 abitanti all’anno a oltre duecentomila presenze nella decade del Festival. La pazienza dei cannois è solo in parte premiata con la messa a disposizione di un certo numero di biglietti gratuiti per l’accesso alle sale, che comunque non li solleva dal doversi ammassare lungo le transenne che sorgono qua e là per le strade della città.
Com’è noto, infatti, Cannes non vive di solo glamour, proiezioni ufficiali, tappeti rossi, anteprime mondiali, ma anche di molti eventi collaterali, in primis la storica rassegna della Quinzaine des Realisateurs. Nella vastissima platea della Sala Stephanie, dove sono in programma la maggior parte delle opere della Quinzaine, campeggia una poltrona vuota, occupata solo da un cartello bianco con una scritta nera: è il nome di Jafar Panahi, regista iraniano condannato nel 2010 a ben sei anni di reclusione per la violazione delle norme sulla censura varate del regime di Teheran.
Alcuni dei film che abbiamo apprezzato di più sono Eldfjall (“Volcano“), profondamente nordico, sin dalla produzione congiunta danese-islandese, un grido di angoscia alla Munch. Il vulcano del titolo si vede in azione in una sequenza di repertorio in apertura, poi resta allo stato latente, simbolo scelto dal regista Rúnar Rúnarsson per indicare la tragedia che minaccia costantemente la vita degli uomini. Il protagonista del film è un burbero bidello di scuola che sta andando in pensione. Ha in programma di suicidarsi ma ci ripensa all’ultimo, più per rabbia che per amore: detesta, forse non del tutto a torto, il nipotino e il genero, maltratta la moglie. Ma la vita ha in serbo per lui altre amare sorprese…
En ville (“Iris in bloom”) mette in scena scontri sentimental-adolescenziali con al centro Iris, giovane irrequieta, ben più profonda sia degli amichetti con cui condivide vita notturna e approcci sessuali, sia degli adulti con cui si trova a confrontare. Il casuale incontro con un fascinoso fotografo sui quaranta scompiglia l’esistenza di entrambi. L’operina è frutto del lavoro di due registi, Valérie Mréjen e Bertrand Schefer, di formazione filosofica – come si sente dai dialoghi, che qua e là peccano di troppa elucubrazione.
Dal Sud America provengono due dei film più interessanti: il brasiliano Trabalhar cansa, anche questa una co-regia mista (Juliana Rojas e Marco Dutra), e Porfirio, di Alejandro Landes, film colombiano realizzato con il supporto di vari altri Paesi: come ci ha detto il giovane produttore, intervenuto a fine proiezione con l’altrettanto giovane regista, in Colombia fare cinema è molto complicato…
Le due pellicole si collocano agli antipodi stilistici: il primo, attraversato da una inquietudine che spinge la giovane coppia protagonista sull’orlo di una crisi di nervi, ha tratti fantastici con venature horror, che emergono dal ritratto dall’apparenza neorealista della vita quotidiana in una grande città brasiliana. Il secondo film, invece, è provocatoriamente documentaristico (anche se l’autore si opporrebbe con veemenza a questa definizione), mostrando l’umile esistenza di un uomo mite, costretto sulla sedia a rotelle per un non chiarito incidente con la polizia.
Sorprendente e commovente l’epilogo, che rivela il destino del vero Porfirio attraverso il corrido, una forma di canzone popolare qui composta e cantata dallo stesso interprete, che guarda fisso in camera, come ad inchiodare lo spettatore alle sue responsabilità di testimone passivo della sventura della parte negletta dell’umanità.
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[…] significativi della Selezione ufficiale del Festival (Concorso, Un Certain Regard) oltre che dalla Quinzaine des Realisateurs e dalla Semaine de La […]