Alì ha gli occhi azzurri di Claudio GiovannesiPrimo concorrente italiano del Festival Internazionale del Film di Roma, Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi un’opera seconda asciutta, onesta e per certi versi rigenerante che sembra provenire direttamente dall’universo sottoproletario dei fratelli Dardenne o dal calderone adolescenziale multietnico di La schivata, mediati però dall’antecedente di entrambi, ovverosia la dimensione letteraria di Pier Paolo Pasolini, tanto che molti distratti, prima della proiezione festivaliera, hanno considerato il film un adattamento della sua quasi omonima raccolta di prose brevi del 1965.

Personaggi principali sono il sedicenne italo-egiziano Nader e il coetaneo Stefano, borgatari romani che si aggirano in un mondo davvero non troppo distante da quello dei loro antenati Citti e Davoli, aggiornati però all’attualità della (mancata) integrazione fra immigrati e locali, coinvolti in una guerra fra miserie ai limiti del fratricidio: Nader, perfetta scissione contraddittoria fra la sua cultura d’origine e la sua patria effettiva (è italiano di nascita), dopo un acceso diverbio con i genitori in seguito alla sua decisione di fidanzarsi con una coetanea occidentale contrariamente alle consuetudini islamiche, trascorre una settimana di vagabondaggio e di notti alla diaccio ai limiti della via crucis, vittima di circostanze dove lo scontro, squallidamente quotidiano e proprio per questo ancor più spaventoso, è legge tribale e che finirà per minare il suo già precario equilibrio sociorelazionale, in particolare dopo l’accoltellamento di un ragazzo rumeno, da lui ferito per proteggere l’amico nel corso di una rissa in discoteca.

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E’ pur vero che il progetto, per il cineasta romano Claudio Giovannesi, nasce come prosecuzione in chiave fiction di un episodio del suo documentario Fratelli d’Italia, e che molti degli attori coinvolti – a cominciare dallo stesso Nader e dai suoi genitori – recitano senza filtri loro stessi e ricreano davanti alla cinepresa eventi con discreta certezza reali, ma è proprio in questa ricercata ambiguità fra inchiesta e invenzione, fra reportage e messinscena, fra verità e verosimiglianza che Alì ha gli occhi azzurri trova le sue intuizioni più felici e il suo baricentro ideale: evitando di prendere una posizione definita fra cronaca e finzione, Giovannesi riesce a catturare il meglio di entrambi, la sincerità genuina della prima e la cura formale – ma non formalista – della seconda.

Senza elevarsi al di sopra del microcosmo che popola la pellicola e, al tempo stesso, mantenendo da esso un salutare distacco in grado di scongiurare la retorica, l’autore de La casa sulle nuvole offre un punto di vista depurato dalla distorsione poeticistica della periferia del mondo (in netto contrasto, ad esempio, con il brutto ibrido di Malavoglia di Scimeca), rinunciando a volti noti e riconoscibili che svelino l’artificio e che facciano da intermediari, Giovannesi non esita però ad inserire piccoli, significativi cenni a quel “vuoto di potere”, a quella mutazione antropologica che il regista di Accattone aveva profetizzato, una realtà pericolosamente televisivizzata nella quale gli adulti sembrano costantemente ipnotizzati dal piccolo schermo, preferibilmente di fronte a una partita di calcio, una civiltà brutalizzata dove sparare col fucile dal tetto di casa per puro svago è una cosa normale, una globalizzazione al contrario nella quale ogni ceto, etnia ed età ha imparato a condividere con l’altro soltanto il peggio di sé.

In questo modo, l’ingombrante confronto con l’intellettuale romagnolo si risolve in un’intelligente e sensibile operazione di rilettura in chiave moderna del suo pensiero (“cosa avrebbe potuto dire Pasolini nella società di oggi?”) e non nei consueti, stucchevoli calchi tardo-pasolinisti di maniera, e in questo autentico e non voyeuristico pedinamento della macchina da presa lungo i percorsi a vuoto di Nader si vede tutta l’intenzione di Giovannesi di lasciare da parte il didascalismo, privilegiando la pregnanza laconica del silenzio.

Seppur non ai livelli del magnifico L’intervallo di Di Costanzo, rivelazione della scorsa rassegna veneziana, Alì ha gli occhi azzurri è un ritratto di notevolissimo rigore, tutto basato sullo straordinario impeto dei suoi protagonisti (esordienti e impressionanti, in quanto a realismo) e sulla forza prospettica – sempre naturale e raggelante – del mondo che li circonda, catturato dai primi piani intensissimi e dagli sfondi quasi perennemente sfocati di Daniele Ciprì, con una contestualizzazione natalizia mai così opprimente ed ostile.

Insomma, il film di Giovannesi, questa storia di violenza (l’ultima inquadratura pare rifarsi direttamente all’omonimo capolavoro di David Cronenberg) girata nella più truce periferia capitolina è stato, cronologicamente, la prima piacevole sorpresa del Concorso.

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