Jessica Chastain“Benvenuti alla settantesima cerimonia di premiazione dei Golden Globe: stasera renderemo omaggio alle produzioni televisive che ci hanno tenuto compagnia tutto l’anno e ai film che sono in sala da soli due giorni”.

Se Tina Fey ed Amy Poehler, sfavillanti punte di diamante del Saturday Night Live incastonatesi magnificamente alla conduzione della serata che per tradizione prelude agli Oscar, fossero al corrente degli insondabili e punitivi criteri della distribuzione italiana, siamo sicuri che la freddura si sarebbe allungata fino ad assumere connotati tragicomici.

Eppure la situazione è la seguente: delle 38 pellicole disseminate nelle varie categorie riservate ai prodotti per il grande schermo, soltanto la metà ha fatto in tempo ad approdare nelle sale nostrane – ambiti festivalieri esclusi, si intende – e anche se da qui al 24 febbraio quasi tutte riusciranno a raggiungere i cinema, “grazie” alla pirateria online i cinefili dei Paesi meno sviluppati in quanto a intrattenimento audiovisivo hanno potuto approfittare di una visione anticipata, in modo da non arrivare impreparati alla notte del 14 gennaio.

Forse è il caso di avvertire il Codacons e di suggerire che il calo del 10% di presenze non è dovuto interamente alla condizione economica degli spettatori.

Ma tornando all’aspetto puramente celebrativo del nostro articolo, molto si è evinto dalle scelte dell’Hollywood Foreign Press Association: in primis, almeno fino ai BAFTA e ai riconoscimenti attribuiti dalle varie gilde, il tragitto verso gli Academy Awards è ancora aleatorio e nebuloso, ricco di potenziali ribaltamenti e campioni a dell’ultimo minuto, con pochi trionfi certi a mitigare la sorpresa; come per le due edizioni passate, il trionfatore annunciato corre il pericolo di vedere il proprio bottino fortemente ridimensionato, se non azzerato, da un pugno di outsider agguerritissimi; l’età media dei vincitori, dopo i premi alla carriera assegnati l’anno scorso ad un manipolo di veterani e mascherati da comuni vittorie, scende drasticamente a 43 anni – fra le più basse di tutte le edizioni -, facendo sperare in un ricambio generazionale in grado di svecchiare l’industria.

Con buona pace degli allibratori e come ulteriore intralcio dopo la mancata inclusione ai BAFTA, non è Steven Spielberg ad aggiudicarsi i due premi maggiori con il suo Lincoln, opera che appare quasi orchestrata a tavolino per ingraziarsi il consenso del pubblico statunitense, ma un regista emergente come Ben Affleck, che dopo un curriculum attoriale non esattamente adamantino e premi per la sceneggiatura originale guadagnati quasi per casualità, ha saputo conquistare i favori della critica mettendosi dietro la macchina da presa e portare a compimento un percorso autoriale coerente e competente, ma, in tutta sincerità, piuttosto standard e a rischio sopravvalutazione: in termini relativi, considerate anche la sterile ripetitività di Quentin Tarantino o l’ampollosità anacronistica di Steven Spielberg, Argo poteva effettivamente dirsi l’esponente migliore della sua categoria, ma sarebbe rimasto unicamente un semplice, umile concorrente dai notevoli limiti e dalle ridotte aspettative, se messo a confronto con tre pietre di paragone del cinema d’autore statunitense contemporaneo come The Master di Paul Thomas Anderson (inspiegabilmente rappresentato dal solo cast nelle varie cinquine), To the Wonder di Terrence Malick (violentemente e consapevolmente ignorato, dopo la barbara accoglienza al Lido) e Beasts of the Southern Wild dell’esordiente Benh Zeitlin, che è stato infatti sorprendentemente recuperato e ammesso di diritto fra i partecipanti agli Oscar 2013.

Se al contesto drammatico di Paradiso amaro e di The Social Network sono stati precedentemente contrapposti rispettivamente gli alleggerimenti brillanti di The Artist e di Una notte da leoni, quest’anno resta ben poco da ridere, visto che a imporsi fra i migliori film comici o musical è il tragico Les Misérables, con cui Tom Hooper, dopo aver ceduto il passo a David Fincher due inverni fa, ottiene la sua prima statuetta senza suscitare particolare scompiglio, tenendo conto del livello non eccelso dei rivali, che annoveravano la melassa indigesta de Il pescatore di sogni, la faciloneria coral-geriatrica di Marigold Hotel, la ruffianeria pseudo-proletaria di Il lato positivo e, alla meno peggio, la spocchiosa vacuità autoreferenziale di Moonrise Kingdom.

Daniel Day-Lewis, come ampiamente preventivato, si impone nel combattivo nucleo degli attori drammatici, anche se resta il dubbio che, nonostante una preparazione a dir poco maniacale e un’adesione precisissima al profilo estetico e psicologico del sedicesimo Presidente degli Stati Uniti, si siano voluti premiare soprattutto più gli sforzi rispetto al risultato e più il personaggio rispetto all’interprete, lasciando nell’ombra la prova concitatissima, febbrile e malsana di Joaquin Phoenix in The Master; suo corrispettivo femminile, anche come “risarcimento” per un 2011 che l’ha vista assoluta (e scarsamente ricompensata) mattatrice, è stata la superlativa Jessica Chastain (Operazione Zero Dark Thirty), che se a febbraio dovrà scontrarsi con scogli minacciosi come la piccolissima Quvenzhané Wallis e l’anziana Emmanuelle Riva, ha qui avuto subito la strada spianata.

Le Miserables Hugh JackmanCon una selezione di commedie non propriamente di rilievo e l’assenza implausibile della “rivelazione” Matthew McConaughey di Killer Joe, lo stesso è accaduto per le performance dei loro protagonisti maschili, azzerati dalla voce grossa di Les Misérables e da uno Hugh Jackman capace di dare vita ad uno Jean Valjean sanguigno e davvero paradigmatico; all’opposto, fra le attrici stravince la ventiduenne di bellissime speranze Jennifer Lawrence, già Premio Mastroianni a Venezia 2008 e attrice più giovane di tutti i tempi a ricevere la seconda nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista, colmando i difetti insanabili dell’insulso Il lato positivo con un’interpretazione contagiosa e all’altezza, a differenza della pellicola, di quell’illustre, autentico New American Cinema a cui il regista David O. Russell avrebbe voluto indegnamente rifarsi.

Fra gli attori di supporto, ad appena tre anni dalla prima volta – meglio di lui soltanto Richard Attenborough, che vinse per due volte consecutive -, è l’austriaco Christoph Waltz, capolavoro dell’attività da talent scout di Quentin Tarantino e dominatore incontestabile della scena nel suo Django Unchained: proprio per questo motivo, per una presenza che ammonta ad oltre due ore su 165′ di durata e per un’evidente preminenza anche in quanto a battute, il riconoscimento appare riduttivo se non addirittura inappropriato, specie se comparato alla sua più centellinata partecipazione nelle vesti dell’indimenticabile Hans Landa di Bastardi senza gloria; Les Misérables si ferma a quota tre, con Anne Hathaway – emozionatissima al momento della consegna come neanche la Julia Roberts degli Oscar 2001 – che sigla la definitiva affermazione delle creature di Victor Hugo nei giudizi della stampa estera e che, pur ostacolata da due avversarie come la riccamente iridata Sally Field (Lincoln) e l’inizialmente favorita Amy Adams (The Master), sembra sulla strada giusta per salire sul palco del Dolby Theatre fra poco più di un mese.

Ripetendo il verdetto dei Critics’ Choice Awards, Quentin Tarantino ritrova quel premio per la miglior sceneggiatura vinto per Pulp Fiction, ma si farebbe fatica a non notare lo squilibrio: il Tarantino di oggi non è più l’enfant terrible di fine secolo e, come intuibile dal suo recente e sconfortante exploit su Channel 4, ciò che aveva le sembianze della poetica di un Autore si è via via trasformato nella reiterazione feticistica e masturbatoria di un meccanismo usurato che da Kill Bill lo sta portando a dirigere pedissequamente lo stesso soggetto, lo svelamento di un trucco che ha finito per proiettare sull’immeritato sopravvento del suo più stanco e formulaico script di sempre l’ombra di una carriera e di un talento buttati alle ortiche.

Anne Hathaway at the Golden Globes

Se la miliare resurrezione del canone bondiano e la sua impeccabile ambasciatrice musicale erano date per vittoriose già dall’inizio – complice anche l’inattesa assenza di Ennio Morricone nella comitiva -, è difficile fare il medesimo discorso per le colonne sonore: tanto prevedibilmente primeggiano Adele e la sua Skyfall quanto placidamente (e a fronte di nomi altisonanti come John Williams e il nostro Dario Marianelli) rimescolano le carte il canadese Mychael Danna e il suo score per Vita di Pi, suo primo lavoro di spicco dopo oltre un quarto di secolo di gavetta, ma viene da pensare che se Jonny Greenwood (The Master) non fosse stato ancora una volta quasi programmaticamente snobbato o se Alexandre Desplat fosse stato menzionato per il suo più meritevole contributo in Moonrise Kingdom, le cose sarebbero potute andare diversamente.

Jean Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva in AmourUn anno non idilliaco per l’animazione – fatta eccezione per l’incantevole Le 5 leggende – porta Brave, il nuovo, triste affondo della gloriosissima casa Pixar dentro un’interlocutoria mediocrità ad un successo un po’ a sorpresa che per la prima volta non si prevede universale, mentre, senza colpo ferire, il capitolo più importante e imprescindibile della scorsa stagione cinematografica, quell’Amour che sbancò Cannes e che incantò le platee e la stampa di mezzo mondo, azzera una concorrenza che, mettendo da parte l’ottimo Un sapore di ruggine e ossa non poteva confidare di competere con un Michael Haneke in stato di grazia.

A rovinare la festa, però, dopo un tenero, appassionato e viscerale discorso che ha mescolato pubblico e privato, amore per la professione e sentimenti umani, ci pensa una commossa Jodie Foster, che accettando il Premio Cecil B. DeMille, sembra annunciare il proprio ritiro, che avverrà verosimilmente alla fine delle riprese di Oblivion: con una dichiarazione simile, anche se a mezza bocca, tutte le facezie, da Will Ferrell e Kristen Wiig che descrivono abborracciatamente le trame di alcuni film candidati per dissimulare di non averli visti a Sacha Baron Cohen che, whisky in mano, liquida il trasformismo di Daniel Day-Lewis con un “son bravi tutti, a farsi crescere la barba”, passando per l’esemplare autoironia di Bill Clinton, intervenuto per presentare Lincoln, si fanno piccole, e, spenti i riflettori, si torna a vedere una Hollywood più piccola, più reale e più irrimediabilmente chiusa nelle proprie incertezze.

Qui trovate l’elenco completo dei vincitori e delle nomination.

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