Non si vive di solo cinema e, nel caso di Clint Eastwood, è bene sottolineare quanto anche la musica abbia avuto un certo peso nella sua vita. Un amore che gli ha trasmesso il padre metalmeccanico, musicista per passione, che ogni tanto suonava blues nei locali con un gruppo di amici. Clint ha assorbito questa passione fino a farla propria, diventando egli stesso un compositore di colonne sonore. Da sempre innamorato della musica, le rese compiutamente omaggio nel 1982 interpretando un cantautore malato di tubercolosi in Honkytonk Man e successivamente, nel 1988, dirigendo la biografia del sassofonista Charlie Parker – il padre del bebop – in Bird. Tra incursioni nel country, nel blues e nel jazz, Clint Eastwood ha composto molti brani delle colonne sonore dei suoi film, da Gli spietati a Un mondo perfetto passando per I ponti di Madison County. Finendo, nel 2003, per firmare l’intera colonna sonora di uno dei suoi lavori più riusciti ed apprezzati: Mystic River.
Tutto questo per dire che non è poi così strano se il leone di Hollywood, alla “tenera età” di 84 anni, abbia deciso di adattare per il grande schermo il fortunato musical di Broadway Jersey Boys, scritto da Rick Elice e Marshall Brickman (quest’ultimo cosceneggiatore, insieme a Woody Allen, di Io e Annie e Manhattan), show con oltre nove anni di repliche alle spalle, nonché vincitore di quattro Tony Awards e di un Grammy. Il film, così come il musical, racconta l’avventura artistica dei Four Seasons, quartetto di ragazzi italo-americani, composto da Frankie Valli, leader del gruppo, interpretato da John Lloyd Young, Bob Gaudio (Erich Bergen), Nick Massi (Michael Lomenda) e Tommy DeVito (Vincent Piazza), gli stessi che negli anni Sessanta conobbero la fama internazionale grazie a successi come Sherry, Rag Doll e Big Girls Don’t Cry.
Dei quattro protagonisti, Vincent Piazza è il solo a non essere stato preso direttamente dal palco di Broadway (ha interpretato Lucky Luciano nella serie TV Boardwalk Empire). Perché Eastwood, rompendo quella che sembrava una tradizione piuttosto consolidata a Hollywood, ha deciso di non ingaggiare star famose per il suo musical, preferendo portare al cinema i ragazzi che hanno messo in scena più di trecento rappresentazioni a teatro.
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Più che un musical vero e proprio, però, Jersey Boys è un biopic musicale. 134 minuti di cinema classico nel senso più stretto del termine in cui, se da una parte non ci si annoia e si canticchiano a fior di labbra i brani dei Four Seasons, dall’altro ci si domanda anche quale sia il senso ultimo ed autentico del film. La sceneggiatura di Elice e Brickman è ben strutturata e ha dei tempi assolutamente inattaccabili, ma i due autori non sembrano avere alcun interesse a incastonare le vicende del gruppo nel contesto storico del tempo. Mai un riferimento alla situazione politica e sociale di quegli anni e neanche il minimo accenno ad altri gruppi musicali potenziali rivali di Frankie Valli & The Four Seasons. L’unico elemento esterno al quartetto che ha fatto anche da collante per farlo emergere, è quel certo ambiente mafiosetto che nei primi anni Sessanta foraggiava buona parte dell’economia del New Jersey, incarnato dal boss del quartiere Gyp DeCarlo/Christopher Walken con stile e leggerezza.
Eastwood, infatti, a differenza di quanto fatto da Scorsese in Mean Streets – Domenica in chiesa lunedì all’inferno e successivamente in Quei bravi ragazzi, evidentemente ha deciso di non sporcarsi le mani a raccontare il marcio che si nasconde dietro ai brani patinati e orecchiabili del quartetto puntando invece l’obiettivo su quei ragazzi di origine italiana che per un po’ sono stati i volti dell’emigrazione di successo.
Caratterizzato da una certa sventatezza, Jersey Boys rappresenta, in realtà, l’ennesimo tassello della poetica cinematografica eastwoodiana, fatta di personaggi che hanno bisogno di essere messi alla prova, di poter cadere per riuscire dimostrare al mondo che sanno rialzarsi perché è proprio in questo che risiede la loro forza. Frankie Valli ed il suo mitico falsetto non fanno eccezione. Se, infatti, nella prima parte del film, lo sguardo di Eastwood si concentra in modo corale sul quartetto, ad un certo punto vira di bordo, focalizzandosi sul frontman del gruppo, sul suo successo sia artistico che umano e sulla tragedia che lo investe, dalla quale uscirà, neanche a dirlo, a testa alta.
Il rigore stilistico, la linearità e la chiarezza del racconto, la cura e la ricerca formale nelle inquadrature eleganti ed essenziali ci sono e non si discutono; ciò che manca a Jersey Boys è un po’ di cuore e di azzardo perché un pizzico di autorialità, a fronte di tanto mestiere, ci sarebbe stata bene e, già che ci siamo, anche un bravo truccatore, lo stesso che è mancato in J. Edgar. I Four Seasons invecchiati sul finale risultano, infatti, insopportabilmente posticci, proprio come DiCaprio ed Armie Hammer nella pellicola del 2011.
[Thanks, Movielicious!]
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