Il 26 febbraio 2013, due giorni prima della fine del Pontificato di Benedetto XVI, il sacerdote Ceco Tomas Halik presentava a Roma l’edizione italiana di un suo libro molto diffuso, “Vicino ai lontani.” E il 13 marzo 2014, mentre Jorge Mario Bergoglio festeggiava il primo anno da Papa, lo stesso Halik vinceva i quasi due milioni di dollari del Premio Templeton, assegnato a chi abbia “contribuito ad elevare il profilo spirituale del mondo”. Alla fine del prossimo agosto, Halik sarà di nuovo a Roma, e per l’esattezza a Castel Gandolfo, dove terrà una conferenza su “Come parlare di Dio nel mondo contemporaneo”. Ad ascoltarlo, gli allievi del Ratzinger Schuelerkreis, il circolo di ex studenti di Joseph Ratzinger che si è arricchito in questi ultimi anni degli studiosi del pensiero di Benedetto XVI.

È lo stesso Benedetto XVI a scegliere il tema dello Schuelerkreis, su una rosa di tre temi che gli viene presentata dai suoi ex allievi al termine di ogni incontro. Ma quest’anno – ha raccontato padre Stephan Horn, che è stato assistente di Ratzinger e che oggi coordina i lavori del Circolo – il Papa emerito ha voluto un supplemento di riflessione, e ha comunicato finalmente il tema dell’incontro solo a novembre. Quanto la sua scelta è stata profetica?

È una domanda da porsi, mentre entriamo ormai quasi nel terzo anno di Pontificato di Papa Francesco. Il tema dell’evangelizzazione era stato fondamentale nelle Congregazioni Generali che hanno preceduto il Conclave del 2013. A leggere le dichiarazioni dei cardinali dopo il Conclave – sempre rispettando il Segreto del Rito del Conclave – si nota come fosse sentita la necessità di un cambio di narrativa, perché ci fosse una Chiesa più credibile, e meno attanagliata dagli scandali e dalla cancrena del carrierismo interno. Poi c’è il famoso discorso del Cardinal Jorge Mario Bergoglio alle Congregazioni Generali, che lui stesso ha autorizzato a rendere pubblico. Un discorso tutto basato sulla necessità per la Chiesa di andare nelle periferie, anche nelle periferie esistenziali, ad annunciare il Vangelo.

Questo ha fatto, Papa Francesco. Ogni suo gesto in questi quasi due anni di pontificato è stato teso da una parte a ripulire l’immagine di una Chiesa troppo chiusa in se stessa, dall’altro a rendere visibile la Chiesa nelle periferie. Si legge in tante scelte del Pontificato: la scelta di fare il primo viaggio da Papa nell’isola di Lampedusa, asilo per i profughi del Mediterraneo; il primo concistoro di Papa Francesco, nel quale ha fatto scelte sorprendenti tra i nuovi cardinali per mettere in luce diocesi che tradizionalmente non avevano mai brillato di una particolare luce; la volontà di mostrare la faccia attenta della Chiesa nel fare pulizia interna, con l’assunzione delle costose compagnie di consulenza esterna; la creazione di un Consiglio di Cardinali fatto quasi nella sua interezza di persone non provenienti dalla Curia, quasi a mostrare che è arrivato il tempo di uscire fuori dall’autoreferenzialità degli uffici; e poi, il continuo andare del Papa incontro alla gente, le ore spese con i malati al termine di ogni udienza generale, la voglia di mostrare un Papa non distante, che porta da sé la sua borsa nera sulla scaletta dell’aereo e che non usa nemmeno l’auto blindata.

Sono queste, e tanti altri piccoli e grandi gesti, ad aver mostrato la faccia della ‘rivoluzione’ di Papa Francesco. Ci sono dei pro, in questa rivoluzione. La Chiesa, per esempio, è uscita quasi indenne dall’attacco di ben due Comitati delle Nazioni Unite. Prima la Convenzione ONU per i Diritti del Fanciullo poi la Convenzione ONU contro la Tortura hanno orchestrato una campagna contro la sovranità stessa della Santa Sede: in due rapporti, tra l’altro non vincolanti e cui tutti gli Stati devono sottoporsi, hanno puntato il dito sull’organizzazione stessa della Chiesa, con la volontà di minarne la sovranità, chiedendo persino di cambiare il diritto canonico. E Papa Francesco può anche parlare dei temi scomodi in campo internazionale senza che ci siano contraccolpi mediatici. È successo in occasione del suo discorso al Parlamento Europeo del 25 novembre, quando il Papa si è concentrato su temi forti come le radici cristiane di Europa, la famiglia non considerata dalla legislazione europea, di aborto… ma niente di tutto questo ha scalfito l’immagine del Papa, e il mondo secolare ha preferito concentrarsi sui temi meno critici del discorso, come l’immigrazione, la povertà e l’esclusione sociale.

Questi pro hanno però in sé anche delle controindicazioni. E cioè che la Chiesa così attenta al sociale, dall’immagine ripulita, sia una Chiesa che non parla più di Dio nel senso profondo del termine. La ricerca di un cambio di marcia nell’annuncio della Parola ha portato ad un pontificato che piace al mondo secolare esattamente perché conversa con il mondo secolare dei temi che possono essere condivisi, e perché – quando parla di fede – lo fa con i toni della pietà popolare. Ma quanto il discorso verte sulla Parola stessa, sul senso profondo del Vangelo più che sulla sua applicazione?

Non è un caso allora che Benedetto XVI scelga per i suoi ex allievi di trattare il tema di “Come parlare di Dio oggi”. Di fronte all’imponente effetto di Papa Francesco, che si riscontra anche nel boom di pubblicazioni su di lui, c’è ancora la necessità di parlare di Dio nel profondo. Vero che le presenze agli Angelus, alle udienze generali, sono aumentate, e che i numeri sono “bombastici”, secondo le parole di una persona che lavora in Prefettura. E vero anche che c’è un ritorno della partecipazione in Chiesa.

Ma è anche vero che forse manca il passaggio successivo. Quanto il fedele che si è avvicinato colpito da uno slogan del Papa, da una particolare attività della Chiesa nel sociale, poi riesce a vivere davvero la presenza di Dio? Quanto una Chiesa con una buona immagine è davvero in grado di evangelizzare?

È l’eterno dilemma dell’istituzione Chiesa, divisa tra l’evangelizzazione e la necessità di una buona comunicazione. La seconda sembra aver prevalso sulla prima. Ma la professionalizzazione della comunicazione, sul modello del mondo secolare, ha portato anche ad una personalizzazione della comunicazione, tutta incentrata sul leader. Oggi, è Papa Francesco a trainare la Chiesa, esattamente come i leader politici trainano i partiti e prendono il centro dell’opinione pubblica. Il leader viene prima dell’istituzione e gli si perdona tutto. Negli Stati Uniti, il presidente Barack Obama ha fatto anche diverse scelte impopolari e secondo alcuni persino anti-costituzionali, ma la sua popolarità non è di certo calata per questo: a un leader universalmente riconosciuto gli si perdona tutto.

Questo non può però essere vero per la Chiesa, istituzione universale al servizio del mondo. Al di là della popolarità dei Papi, c’è l’istituzione, che permane sempre e va oltre le persone. E l’istituzione è espressione della volontà di Dio, l’unico che deve davvero essere annunciato.

Forse ha sentito questo rischio, Benedetto XVI, dal suo monastero del Mater Ecclesiae. Nel mezzo della professionalizzazione della comunicazione vaticana, ha sentito che c’era la necessità di ritornare a parlare di Dio. Scegliendo questo tema, ha così indicato una strada profonda, che va al di là di ogni campagna di comunicazione o del gradimento per l’operato di questo o di quel pontefice.

E chissà che Papa Francesco non accolga il suo consiglio. Il rapporto tra i due è costante – nonostante non ci siano state immagini di un incontro per lo scambio di auguri natalizi tra i due, come lo scorso anno – e Papa Francesco ha chiaramente detto che il Papa emerito è una istituzione. Benedetto XVI è stato una sorta di consigliere nascosto per Papa Francesco, e – con umiltà – ha anche mandato suggerimenti, quando questi gli fossero stati richiesti. Con la scelta del tema del prossimo Schuelerkreis, ha segnato una strada. La Chiesa saprà seguirla?

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