Barbie: un film per bambine anni ’90
Tutti parlano di Barbie o almeno così mi è sembrato di capire; da almeno 15 giorni, viene intavolato il discorso “film di Barbie” ad ogni cena con amici e conoscenti.
Io e mia figlia (bambina di quasi 10 anni) lo attendevamo da un paio mesi, dopo aver visto la pubblicità al cinema: lei attratta dal vedere un film “total pink” su grande schermo di uno dei suoi giochi preferiti ed io dal quel fascino del revival che mi riportava un po’ indietro ai miei anni ‘90.
Credo sia proprio per la mia generazione e quella di poco precedente che sia stato girato questo film. Sì perché “Barbie”, a quanto pare, non è un film per bambine, come credo un po’ tutti ci aspettassimo. Al contrario, è stato proprio l’effetto shock del contrasto “trailer tutto rosa” vs “film con contenuti” a far parlare tanto, non solo i critici cinematografici ma soprattutto la più obiettiva e sincera opinione pubblica.
Chi è riuscito, infatti, a superare la propria reticenza nei confronti dei quintali di vernice rosa utilizzata per la produzione ed enfatizzata, in ogni modo possibile, prim’ancora che il film fosse proiettato, è uscito da quelle sale con lo stupore derivante dal ribaltamento delle proprie aspettative.
Non sono convinta che molti di coloro che hanno scritto recensioni in merito abbiano realmente visto il film; lo scrivo in modo provocatorio ma sostengo seriamente che approcciarsi al nuovo con la mente chiusa e ricolma di preconcetti, cercando soltanto di trovare, nella visione del film, una conferma ai suddetti… non abbia alcun senso.
Questo principio dovrebbe valere in generale, d’altronde.
Fa ridere, questo film; ci sono alcune battute ironiche e ben assestate capaci di dare quel minimo di comicità che smorza le varie tematiche femministe sollevate, per quanto non particolarmente sviluppate.
Questa è forse la maggiore criticità che si riscontra: le problematiche di vario genere che vengono messe sul piatto, rimangono lì a raffreddarsi rapidamente, lasciando solo spunti di riflessione per un pubblico attento; sarebbe stato peraltro eccessivo il contrario e quindi inevitabile questo risultato, poichè, per quanto un minimo impegnato, si tratta pur sempre di un film incentrato sulle celebri bambole della Mattel.
Un altro elemento che può generare particolare apprezzamento, prettamente da parte del pubblico femminile degli anni del boom di diffusione del gioco è la “conoscenza del prodotto”: si percepisce, infatti, una linea di continuità lungo l’intera durata del lungometraggio, in cui vengono riportati alla luce i vari modelli che hanno avuto più o meno successo, oltre a quelli ritirati o polemizzati, senza dimenticare l’immancabile e personalizzata “Barbie Stramba” che ogni bambina ha acconciato da sé con forbici e colori.
L’effetto che ne deriva provoca nella spettatrice una saudade che difficilmente credo possa aver provato un maschietto, seppur di quell’epoca.
È anche vero che non so quanti fidanzati o mariti siano stati trascinati in sala con gli occhiali da sole per non essere accecati dal monocolore di Barbieland, ma più importante è la loro opinione postuma. Il femminismo imperante, l’esagerata negatività del genere maschile, ostentata al limite del grottesco, principalmente nella figura di Ken e del CEO della Mattel, potrebbero mettere a dura prova i nervi di un maschietto al cinema, eppure, a quanto pare, chi è sopravvissuto, dice di aver riflettuto.
Last but not least è l’approccio molto diretto nei confronti delle principali accuse sollevate alla Mattel nella storia del suo prodotto: il film non si nasconde dietro ad un dito; utilizza anzi la strategia dell’attacco per difendersi.
Sempre noi ragazze degli anni ’80/’90 siamo state le prime ad essere tirate in ballo come vittime di un ideale fuorviante dell’immagine estetica, fortemente influenzato da un prototipo di donna dalle gambe lunghe, le caviglie strette e le cosce con lo spazio in mezzo. Questa ed altre colpevolezze sono trattate sin dai primi minuti del film, stranamente senza cercare troppa assoluzione, piuttosto ironizzando, come nel caso della presentazione della creatrice di Barbie, Ruth Handler e della sua “leggera” evasione fiscale e correlati.
Sicuramente un’impronta moralistica in stile favola waltdisneyana è fortemente presente, a conclusione delle tante criticità femministe sollevate ma anche questa, tutto sommato, risulta attenuata da un’ironia decisamente originale: la diatriba social, già viral, sull’antiesteticità delle Birkenstock è magistralmente sfruttata a morale semiseria e lascia sulle labbra un benevolo sorriso, forse un po’ a riscatto tardivo dei troppi tacchi a spillo che abbiamo cercato di tenere appaiati da bambine.
Fortunatamente, la voce fuori campo, nella versione originale quella della divina Helen Mirren, ci rassicura tutte, facendoci venire le lacrime agli occhi (dalle risate): “Margot Robbie è la persona sbagliata da scritturare se volete fare questo discorso”.
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