Eisenstein in Messico

Eisenstein in Messico_locandina italianaIl cinema di Greenaway certamente, negli anni ’80, ha rappresentato una delle avanguardie europee, forse una delle ultime, prima che il vero dinamismo, la spinta innovativa nell’immagine passasse ad altre frontiere e perfino ad altri media. Opere come Lo zoo di Venere o Il ventre dell’architetto, ad esempio, riviste oggi, hanno un’essenza, una densità nel tono dell’immagine, una vibrazione nell’utilizzo di un certo tipo di musiche, un erotismo ancora libero che sottende la storia, le immagini, i personaggi ma anche una strana plastificazione visiva alla La Chapelle, insomma, tutto questo, rende i film meravigliosamente datati a quel decennio, un po’ come il più movidero Almodovar o, al contrario, certa plumbea e malinconica metropolitanità in molti film italiani di quegli anni. Greenaway, allora, ancora praticava comunque il linguaggio del cinema.

Oggi l’avanguardia, la frontiera appunto, passa per altri fonemi, per altri stilemi, per altri segni, per altre gestalt.

Ecco allora un Greenaway sperimentatore per forza, che arriva al rebus, alla complicazione superflua, al meccanismo ad orologeria, alle scatole cinesi e, soprattutto, all’ipertesto che soffoca il testo. Come nella recente saga interessante ma noiosa e boriosa de Le valigie di Tulse Luper. Estremo tentativo manieristico e virtuosistico di forzare dall’interno i limiti della narrazione cinematografica ibridandola con i possibili parallelismi e sliding dors delle narrazione interattive del digitale. Il cinema ancora concentrazionario in cui si aggira esplorando il primo Greenaway diventa un universo-cinema “a stringhe”, da Tulse Luper in poi. Il passo ulteriore, ma probabilmente già da almeno un decennio, sarebbe stato il film-videogioco o il videogioco tout court.

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Con Tulse Luper, Greenaway era sull’orlo di un abisso cinematografico, poteva caderci dentro o fare un passo indietro. In Eisenstein in Messico, restano i virtuosismi un po’ leziosi, la scomponibilità dadaista dell’inquadratura, la provocazione erotica, la metacinematograficità ma tutto nel quadro di una struttura del racconto. più leggibile, non tradizionale ma sicuramente dotata di una sequenzialità degli eventi.

Del “film non film” girato in Messico da Eisenstein non vediamo quasi nulla e della liberazione sessuale del regista in un mondo altro rispetto al rigido inquadramento sovietico da cui proveniva, forse ci interessa poco. Quello che probabilmente ci ha sempre interessato in Greenaway era la densità, la simbolicità, la sensualità delle immagini nei suoi migliori lavori. Il Greenaway recente è sempre più asettico purtroppo, vittima del suo sperimentalismo fine a se stesso.

Questo suo ultimo film, pur interessante per alcune soluzioni, rivela sempre più un regista che procede in un vicolo cieco. Avanza ma le sue energie vanno spegnendosi e probabilmente non ha più nessuna Itaca cinematografica cui fare ritorno.

Peter Greenaway

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