Janis 1-Sheet final.inddBiopic musicale dedicato a una delle voci più urticanti e destabilizzanti della storia del rock, Janis è un’operazione non originale, ma in grado di scaldare il cuore e di stringere le viscere esattamente come i brani epocali della rocker di Port Arthur.

Una Judy Garland del rock

Janis Joplin: un’icona rock, una dea del suono capace di incantare il pubblico e cambiare la storia della musica, una forza della natura che ipnotizzò il mondo con la sua voce blues. Ma non solo.

Janis Joplin morì di overdose in un motel di Los Angeles nel 1970, andando ad aggiungersi al folto e famigerato Club 27 ed entrando di diritto e dalla porta principale nel pantheon delle rockstar maledette. Cosa resta, oggi, di quell’icona? Del suo talento scomodo, di una voce unica e riconoscibile tra mille, in grado di trasportare l’ascoltatore sulle montagne russe del rock e del blues e di donare al mondo un lezione di sfacciato anticonformismo, menefreghista di qualsiasi bon ton canoro? Di sicuro il magistero della Joplin è stato idealmente accolto, almeno sul piano delle intenzioni, da più di un artista, proprio in virtù di una singolarità di stile e di atteggiamento nella quale era difficile non trovare un faro, un modello da seguire, un affascinante punto d’incontro tra disperazione, schiettezza, abrasione e rifiuto della performance standard da proporre su un palco.

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È proprio sul palco che la sbeffeggiata Janis, la sfigata Janis, la ragazza sola e per niente attraente originaria della texana Port Arthur, dava l’idea di tramutarsi in un ciclone di indistruttibile, selvaggia e spietata purezza, capace di spazzar via qualsiasi torto subito con dosi enormi di rivalsa e di sincerità, di odio ben incanalato e di riscrittura della storia del rock (perché la storia del rock Janis Joplin l’ha scritta, e alle fondamenta). In tutti i brani della Joplin sembra annidarsi una parte di lei, un altro piccolo pezzo del suo cuore, che viene quasi vomitato sul palco, come a voler condividere con chi osserva e ascolta una nudità altrimenti inesprimibile a parole. Senza cerimonie, comunicando talvolta più con le viscere e con la gola che, più banalmente e prosaicamente, con quel cuore denudato. Che pure c’è, ed è pulsante.

Janis, documentario della regista Amy Berg, prova a immergersi nella rivoluzionaria grandezza della Joplin con discrezione e tatto, a farsi largo senza strafare nei meandri del mito e della donna tormentata, utilizzando tutti i classici strumenti a disposizione del doc musicale e piegandoli alle proprie finalità espressive. Viene data voce agli amici, ai conoscenti, ai familiari, ai produttori e ai musicisti suoi colleghi, toccandone così con mano la delicatezza e la fragilità oltre all’incomparabile, vitalissima e autodistruttiva energia, quello stesso fuoco sacro che in un modo o nell’altro finirà col costarle addirittura la vita.
Non osa, la Berg, non si sbilancia, non eccede e non va oltre rispetto al prototipo di biopic imposto dalle esigenze del prodotto, non calca la mano e non carica il suo film di particolari elementi di interesse che esulino da uno sguardo ravvicinato e intimo sull’anima della Joplin e sulla sua vocazione congenita alla dissipazione di sé e delle proprie capacità.

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Una semplicità che però finisce per scaldare ed emozionare, per accarezzare la mitologia con affetto e con la giusta dose di tiepida onestà, facendo emergere l’autenticità del privato dietro gli stereotipi risaputi del pubblico: l’epistolario alla famiglia, per esempio, affidato alla voce di Cat Power nella versione originale e a quello di Gianna Nannini in quella italiana, è uno squarcio di importanza non indifferente nel tessuto del film, che rivela tutta la spaesata, tramortita sensibilità di una giovane donna che rimase comunque ancorata alle sue radici, nonostante tutto. Una Judy Garland del rock, appunto, alle prese con un mondo rovesciato e lontano da casa, troppo saturo di tentazioni virate al nero e pulsioni di morte per non attrarre una creatura come Janis nelle sue spire.

Non sono particolarmente rilevanti, le risposte in merito alla figura di Janis Joplin cui approda il film di Amy Berg, ma ciò non è, com’è giusto che sia, il suo obiettivo primario: senza scivoloni pruriginosi, senza voyeurismo malsano, senza domande furbescamente scomode, Janis si “limita” a risvegliare nello spettatore un amore magari sopito o in stand-by, come spesso accade anche per gli artisti più grandi, che entrano ed escono dalle nostre vite per poi ritornarvi prepotentemente, in modo insperato e arbitrario. Restituendone la rabbia e la meno nota docilità, gli innamoramenti e le passioni (Otis Redding, Aretha Franklin) ed esaltandone i brani e i live, scelti con perizia e una certa originalità che evita il già visto. Canzoni che sembrano giungere ancora oggi da una galassia lontana e che Janis Joplin non si limitava ad eseguire, ma, come si dice nel film, “a strangolare a morte”, lasciando intravedere dietro quei versi brutali e potenti un baratro e un disincanto senza ritorno.

[Thank you, Quinlan!]

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