Essere un esordiente alla regia e potersi permettere di sfoggiare un cast delle proporzioni di quello di The Air I Breathe non è cosa da tutti i giorni. E invece il bravo Jieho Lee dimostra di saperci fare: il suo film è sì un finto-originale (scelte tecniche e tematiche sono state usate anche recentemente da autori ben più noti), ma per quasi un’ora tiene egregiamente desta l’attenzione e coinvolge nel turbine dei sentimenti.

Impostato sulla falsariga di una sceneggiatura che ricorda tanto lo stile Iñarritu (Babel su tutti), The Air I Breathe è diviso in 4 capitoli, dedicati ad analizzare le sfaccettature della vita attraverso 4 emozioni primarie: felicità, piacere, dolore e amore, sulla scia di un proverbio asiatico. Quattro storie, quattro protagonisti, accomunati dalla presenza di un altro personaggio, un truccatore di scommesse soprannominato Fingers (Andy Garcia), che regola e sconvolge le vite di tutti loro.

Il primo episodio è di certo il più riuscito, coinvolgente, emozionante e originale: vede un sontuoso Forest Whitaker nei panni dell’uomo non pienamente soddisfatto della propria vita, che scommette tutti i suoi averi su una corsa truccata. Perderà e la sua vita crollerà. Il secondo capitolo punta tutto sull’azione, riuscendo ancora a non far rimpiangere il precedente: Brendan Fraser, che possiede il dono di vedere il futuro, lavora al soldo di Fingers ed è costretto a passare una giornata assieme al suo viziato nipote. Ma il suo dono lo abbandonerà proprio nel momento cruciale della sua esistenza.

Il ritmo del film comincia però a dilatarsi scena dopo scena, per crollare pesantemente col terzo episodio, che si abbandona al patetico romantico, decisamente fuori luogo in un film con pretese di tale levatura. Protagonista è una popstar (Sarah Michelle Gellar) – anch’essa costretta a lavorare per Fingers – la quale si innamora proprio del suo tirapiedi (il protagonista del secondo episodio). Se questo terzo capitolo è il peggiore, l’ultimo lo segue da vicino dal punto di vista tematico, riportando la storia di un medico (Kevin Bacon) che, per salvare la vita della persona che ama, morsa da una vipera, deve trovare una sacca dello stesso raro gruppo sanguigno della donna.

È un po’ il finale che non ti aspetti, da un film che esordisce in maniera sontuosa, ricordando allo spettatore la fragilità e l’incontentabilità della natura umana, che possono condurre alla tragedia. Il lieto fine è una concessione allo spirito hollywoodiano che possiamo e dobbiamo perdonare a questo ambizioso esordiente, che dimostra perizia tecnica notevole (nella regia, nella fotografia e nel montaggio) e una certa capacità di sapere mutuare dai grandi maestri, rielaborando in maniera originale.

Non rimarrà nei cuori e nelle menti di tutti, ma saprà toccare l’animo dei più sensibili in diversi momenti. Da non perdere la performance di Whitaker, una spanna sopra a tutti i colleghi.

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